domenica 29 giugno 2008

Capitolo quattro. Satarapanatama

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Quello che fondamentalmente la gente ignora è che Michael Jackson non è un essere umano.
Sì, certo, possiamo star qui a scambiarci battute, a dirci che nessuno ha mai davvero pensato che lo fosse.

Io però sto parlando seriamente.

Fate caso alle date: Michael Jackson nasce nel '58, fa musica fin da bambino. Credo dal '63, ma potrei starmi incasinando con le date. Insomma, finisce per far carriera nel pieno degli Anni Sessanta.
In quel periodo la gente ha un dannato bisogno di un messia. Non un messia qualunque, intendiamoci. Un messia pop. Avete mai visto Jesus Christ Superstar? Ecco, qualcosa del genere, bravo a cantare, a ballare, con un sacco di seguaci e possibilmente appartenente a una minoranza sociale.
Non c'è bisogno di dire molto di più, vero? Il nostro piccolo fenomeno se la cava in tutte queste cose, appartiene alla comunità afro-americana e ha un carisma che i suoi fratelli in carne e ossa si sognano.
Perchè ci sono cose che non sapete.

Alla nascita, si sono verificate alcune cose messe subito a tacere, perché la gente non si facesse strane idee. Quelli con cui ho parlato io dicono che, il giorno del Natale Jackson, un ragazzo cieco ha iniziato a disintegrare ogni record di flipper e a mandare messaggi profetici sotto forma di canzoni. Gli Who, abbastanza a dentro di queste cose, hanno poi preso spunto da tutta la faccenda per il loro musical, Tommy.
Una donna ha buttato giù le note di Aquarius, che poi verrà usata in Hair, dicendo di non riuscire a smettere. Un paralitico si è messo a ballare freneticamente davanti a ventotto testimoni.
C'è anche una dichiarazione della madre di Jackson, subito ritrattata. Dice di non aver proprio partorito il figlio.
Dice di averlo cantato.

Eco è convinto che Michael Jackson sia un eggregore. In pratica, il desiderio di un Messia Rock così intenso da farsi carne e ossa.

Una delle prime lezioni che mi diede Regina consisteva proprio nel capire cosa sono gli eggregori. Quando si immagina qualcosa con la dovuta concentrazione, con la dovuta forza, le si può dar corpo. Si può far diventare l'oggetto delle proprie fantasie un'entità concreta. Ricordate il discorso che vi ho fatto all'inizio, su come il Russo immaginava che l'uomo avesse creato Dio? Esatto, il discorso è quello.
Più gente lo immagina allo stesso modo, con la stessa intensità, e più l'eggregore diventerà vivo. Autocosciente. Reale.
Il mito del ragazzino che ce la fa da solo e diventa ricco sfondato, remixato alla voglia di riscatto per la comunità nera. Pensate cosa può aver prodotto tutto questo.
Quando, nel '68, si era in piena rivoluzione culturale, Michael Jacksosn firmava il suo primo disco solista. Tempo prima, sua madre lo aveva sorpreso mentre insegnava la sua Parola al direttivo della Motown. Magia. Avrete visto per forza quei video in cui Michael Jackson sfida le leggi della gravità e inclina il suo corpo ben oltre il baricentro, no? Beh, non sono effetti speciali. Non è un caso che abbia iniziato a farlo quando il livello di fede in lui era all'apice.
Sì, lo so. Non ci credete.
Ma se ci pensate, non ci credete soltanto perchè vedete le cose da un unico punto di vista. Vi faccio un altro esempio.
Negli anni Novanta, le cose cambiano. Saltano fuori le accuse di pedofilia. Lui inizia a trasformarsi... e quando dico trasformarsi sapete bene cosa intendo, vero?
Io non so dirvi se ci siano state prima le accuse o i mutamenti. Sarebbe come chiedersi se è nato prima l'uovo o la gallina. Però più la gente comincia a immaginarlo come un mostro, più lui diventa un mostro davvero.
Perchè non è più il Messia del Rock. E' una sorta di incubo uscito da un romanzo di Moorcock. E' diventato lo spauracchio fottibambini, qualcosa che si deve temere.

Anche questo mi fa essere abbastanza sicuro che si tratti di un eggregore. Il problema con queste forme-pensiero senzienti è che risentono della fantasia di chi li ha creati. Ci vuole un sacco di tempo e d'immaginazione collettiva perchè si affranchino in modo definitivo da chi ha dato loro origine. Generalmente, quando succede, diventano Archetipi come Dio, Satana, il Lupo Cattivo. Pesi massimi, insomma.
Sennò... beh, è tutta partita da giocare.
Magari è per questo che esiste la propaganda, ci avete mai pensato? Migliaia di neonazisti che belano sulla non esistenza dei campi di sterminio, non vogliono solo convincervi che non ci siano mai stati. Vogliono riscrivere un passato in cui la storia è andata come dicono loro.

La gente ha dato a Michael una potenza tale da renderlo ancora molto reale, ma non ancora così immutabile.
La pelle di Michael Jackson è la tela su cui vengono scritti i terrori dei suoi fan e dei suoi detrattori.

Ora, perchè io ucciderò Michael Jackson con una maledizione scritta?
Perchè è più facile. Perché essendo una storia vivente, dovrei avere più controllo su di lui che non su qualcosa in carne ed ossa.
Perchè una delle più semplici regole, è che un eggregore dovrebbe venir disperso, prima di vampirizzare emozionalmente l'ambiente circostante per tenersi in vita.

... e soprattutto, perchè la sua musica mi ha sempre fatto cagare.

martedì 24 giugno 2008

Capitolo tre. Qasatapavaracamana

scacchineon

Fa la sua mossa, una mossa anche abbastanza canonica. Pedone di due caselle, e io che mi aspettavo chissà cosa.
Intanto mi parla del suo esercito di Bianchi.
"Non credo volessero veramente dichiararti guerra, ma sono stati costretti. Gli alfieri dicono che è necessario per buttar giù la tua tirannia"
"Ma che tirannia! i Neri stanno benissimo!"
La vedo sogghignare. "Ai miei alfieri, di questo, non gliene frega niente"

Quando faccio per rispondere alla mossa, la mano resta un po' troppo sospesa sul pedone che dovrei mandare avanti. Guardo la ragazza davanti a me. Non le ho ancora chiesto come si chiama, ma al momento mi sembrerebbe quasi fuori luogo. Per ora siamo generali nemici su un campo di battaglia. Ogni distrazione potrebbe costare la vita ai nostri uomini.
Lei mi guarda.
Poi inizia a raccontare. Sì, proprio a raccontare.

"Adesso che la guerra è davvero cominciata - dice - gli altri pedoni si mandano dispacci in un frenetico passaparola, per informare il Re di quanto succede sul campo di battaglia. Le torri si accendono dei fuochi di segnalazione, i cavalli corrono a perdifiato fino a palazzo. A corte, tutti vengono informati della resistenza dei Neri. Gli alfieri annuiscono ai lati, gravemente. I ribelli saranno stroncati una volta per tutte.
"Il Re, invece, è dubbioso: in fondo si sente vecchio, stanco e debole, e non vorrebbe davvero uno spargimento di sangue. La Regina gli tiene stretta una mano, per rassicurarlo. Lei sa cos'è meglio. Il Re è ormai mezzo cieco e non saprebbe vedere una casella più in là del suo naso. E' la Regina quella che vede sempre più lontano di tutti"

Quando finisce, mi fa un sorriso. "Che si dice, invece, dalle tue parti?"

Eh. Che si dice? Guardo per un attimo i miei pezzi, mi prendo un momento per pensarci su e capire come muovere. Ve lo dicevo, no, che non sono troppo bravo a scacchi. Le aperture, soprattutto. C'è gente che le studia: le partite con loro diventano un duello di forme, in cui ci si sfida con schemi d'attacco codificati. E il primo che fa un errore potrebbe aver perso l'intera partita. Come quegli scontri tra samurai, avete presente? quelli dei film. Dove uno dei due avversari riconosceva la sconfitta solo per essersi messo in una guardia sbagliata.
Beh, suppongo possiate intuire che non è il mio caso. E le prime mosse sono le peggiori, ancora slegate come sono dallo scambio di attacchi e difese. Quelle su cui resto a rimuginare fino a stroncare il mio avversario di vecchiaia.
Lei non ha la minima fretta, però si vede che sta aspettando il mio racconto, prima ancora della mia mossa. Come se fosse impossibile non farla precedere da una storia.
Così penso a qualcosa da dire, tanto per prender tempo e non annoiarla troppo, mentre medito su come aprire la partita.
Guardo uno dei pedoni. Uno di quelli in posizione centrale. Quello davanti la Regina.

"Prima ancora di avanzare sul lungo sentiero bicromo di caselle che mi porterà dritto al destino, alzo una volta ancora le braccine cortissime verso l’intera Nazione Nera, dietro di me.
"Voglio sentire il boato della folla, l’aria scoppiare delle urla di giubilo. Che sia il mio inno di gloria mentre vado ad affrontar la sorte in singolar tenzone.
"Giovani nobildonne piacenti si affacciano dalle Torri ai lati del campo base. Ognuna mi dedica una frase d’amore, finendo per sovrapporle in un unico sospiro e svolazzo di fazzoletti intrisi di pianto.
"Ma io no, io non posso illuderle sul mio ritorno.
"I cavalieri incedono con la loro andatura storta, facendo il possibile per non travolgere la massa di pedine in festa. I destrieri, resi folli dai fuochi artificiali, dalle bandiere e dal vociare incessante, si impennano e agitano le zampe anteriori.
"I Pontefici Alfieri mi fanno inginocchiare e si preparano a impartire la propria benedizione. Per quanto sia stato terribile lo scisma (sulla possibilità o meno che i pedoni si reincarnino in altri pezzi, alla fine del loro percorso spirituale) ora i dissapori sono messi da parte. Sarà la vittoria a dimostrare che la nostra fede aveva ragione. Qualunque essa sia.

"Il Re immobilizzato da una spaventosa malattia che ne ha minato il corpo ma non la tempra, fa un cenno col capo. Ha fiducia in me, anche se i miei natali sono intagliati nel legno più povero.

"Ma è la sfuggente Regina a stringere il mio animo in una morsa. La Regina, che sembra sempre essere così lontana, così vicina, sempre in ogni posto e mai in nessuno. In ogni mossa, nel mio cuore. Quando la Regina alza delicatamente la mano per salutami, io – un umile pedone – non posso fare a meno di chinare la testa e dire ad alta voce che a lei, e solo a lei dedicherò la mia vittoria"

Muovo il pedone avanti di qualche altra casella.
La vedo aggrottare le sopracciglia, incredula. "Un pedone coraggioso. E narciso come pochi"
Ha la fronte corrugata, mentre lo guarda. Poi di nuovo fissa me. "Credi che saprà mantenere questo coraggio fino alla fine?"
"Non so. Magari è solo esibizionismo. Proviamo a vedere"

Così, senza metterci d'accordo, decido che terrò fede alla mia storia. Muovo solo quel pedone, mai nessun altro pezzo.
Lei li sposta tutti. Mi tiene il pedone costantemente sotto scacco, manco fosse lui il Re. Anzi, del Re se ne frega bellamente. Mi fa capire che potrebbe uccidermi in ogni momento, che la scelta di muovere da solo guerra ai Bianchi è stata la più avventata e sciagurata che mai potessi fare, accidenti a me e ai miei ideali romantici di ribellione.
Eppure non mangia mai.
Anzi, mi apre la strada verso il suo Re. E io non ho tempo di essere incredulo o di capire quale sia il suo gioco. Ho troppe energie da risparmiare per sfuggire agli arcieri sulle Torri, ai cavalieri che mi danno la caccia e agli alfieri con cui è meglio nemmeno incrociare lo sguardo.

Finisce che siamo io e la Regina, uno davanti all'altro. Il Re dietro di lei.
"Da solo, con un pedone, non potrai mai fare scacco matto. Ecco perchè i rivoluzionari solitari durano poco. Fanno clamore e diventano dei simboli, ma non concludono", dice lei.
"Ma almeno non sono pedine come tutte le altre".

Mette via la scacchiera.
E poi fa il miglior sorriso mai visto sul volto di qualcuno. "Benvenuto tra noi", mi dice.
Mentre le stringo la mano (una mano forte, con le unghia non troppo lunghe... una mano pratica, mi verrebbe da dire), glielo chiedo.
"Come ti chiami?"

Ma forse lo so già. Certo, è impossibile che lo sappia già. Eppure, quando si presenta, niente può evitarmi un attimo in cui mi sento il cuore impastato allo stomaco.

"Puoi chiamarmi Regina", dice.

venerdì 20 giugno 2008

Capitolo due. Pasaranatama

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Risparmiamoci il racconto di come li ho conosciuti, almeno per ora.

Verso le dieci di sera, sono davanti al portone in via del Pratello. Eco è proprio accanto a me, a spulciare tra i nomi sul citofono e a rivolgermi un sorriso che magari vorrebbe pure essere rassicurante.
Non ci riesce. Riesce solo a farmi montare il nervoso sempre di più.
E' che io, alle feste, non mi diverto mai. Davvero, fin dalle superiori. Vabbé, le feste delle superiori non fanno testo perché erano veramente una merda, ma è un discorso che va bene anche in generale.
Credo sia un accenno di claustrofobia. Insomma, devi rimanere chiuso nella casa in cui si fa la festa. Devi spassartela, magari anche se non ti sta passando proprio bene. Devi prestarti a fare qualcosa di stupido che non avresti mai voluto fare in condizioni normali. E se hai la disgrazia di non avere una ragazza al seguito, la sensazione di claustrofobia cede il passo a quella di angoscia. Per arrivare al desiderio di suicidio quando c'è magari qualcuna che ti interessa.

Questa sera, grazie al cielo, che mi interessa non c'è proprio nessuna. Sono tutti sconosciuti. Non è comunque una bella notizia, ma almeno ho qualche speranza di rompermi solamente le palle invece che farmi anche il sangue cattivo.
"Basta che ti limiti a esser molto bello", mi raccomanda Eco, sorridendo ogni frase come Ecclestone nel Doctor Who.
"C'ho provato"
"Non direi". Suona.

Mentre aspettiamo che qualcuno ci apra, penso alla festa di compleanno di uno che conoscevo. C'era anche questa mia amica che, a un certo punto, mi prese da parte.
Mi disse di smettere d'essere così ingrugnato, e poi mi stampò un bacio sulla fronte per addolcire la pillola. Non ero ingrugnato, affatto.
Cazzo, lo sembro davvero così tanto, in occasioni del genere?

"Chi è?", chiede una voce femminile al citofono.
Eco non risponde. Dopo qualche secondo faccio per avvicinarmi e rispondere io. Eco mi fa cenno di star zitto e io lo guardo, senza capirci niente.
"Ok, salite", fa la voce. Il portone si apre.

Saliamo due o tre rampe di scale. Mi accorgo di respirare a fondo, sbuffando fuori l'aria dai polmoni, come faccio ogni volta che sono nervoso. Lo sono un po' troppo, anche per una festa verso cui parto prevenuto.
Quando arriviamo, la porta è appena socchiusa e da dentro arriva Ceremony dei New Order, a un volume che prende a pugni la gola e lo stomaco. Mi sembra di entrare di nascosto, così, senza nessuno all'ingresso.
Eco annuisce al nulla, e sussurra un fantastico! Sembra sempre più il Dottore.

Dentro c'è un carnaio di gente. Un corridoio di facce che chiacchierano e di braccia che tengono in mano bicchieri mezzi vuoti. Un muro si suono che ci si abbatte addosso e mi fa chiedere in virtù di quale miracolo nessuno abbia ancora mandato i Carabinieri o chi per loro.
E, soprattutto, sono tutti in maschera.
Le maschere da animali vanno per la maggiore. Quelle... come si chiamano, a larva? che coprono solo mezza faccia. Un paio sembrano fatte a mano e una - a forma di volpe -è talmente uguale a un'altra che ho pure io, a casa, che non riesco a impedire di fissarne la proprietaria. Lei se ne accorge, agita una mano e sorride. Per un momento, è come se la sentissi complice di qualcosa, non so di cosa.
Alcuni hanno invece quelle maschere bruttissime che andavano di moda negli anni Ottanta, quelle che si indossavano da bambini, di plastica infima e con le facce dei personaggi dei cartoni animati. Conto un paio di He-Man, di cui uno sta limonando con Skeletor. Roba da fargli una foto e metterla come simbolo dell'amore che sistema ogni divergenza.
E poi le immancabili di Scream e di V, puntuali come Battisti suonato in spiaggia, nella fase più triste di un falò all'aperto.
Un paio di tizi mi salutano. Contraccambio. Eco non me li presenta e mi trascina dritto verso un'altra stanza, prendendomi per il polso.
Gente balla in cucina. In sala, tre tizi, mascherati da scimmie, guardano Metropolis in DVD, su un televisore ultrapiatto e con lo schermo abbastanza grande da spararmi lo sguardo stralunato dell'androide, piantato (ci giurerei) proprio contro di me.
Mi sento come se improvvisamente fossi stato catapultato in una versione più alla mano di Eyes Wide Shut.

Una ragazza vestita di nero mi guarda malissimo, una faccia come se le avessi appena ucciso un parente. Stringe le labbra e pregusta il mio sangue. Eco ci parla, indicandomi. Lei annuisce. Indica il corridoio.
Eco annuisce e viene verso di me. La ragazza continua a fissarmi sperando che io muoia. Magari è perchè sono l'unico che non è travestito o vestito strano o che. Non è colpa mia, non me l'ha detto nessuno. E anche Eco è vestito normale, solo un po' più elegante.
La musica sembra aumentare. Qualcuno dev'essere salito ed essersi messo a ballare su un tavolo. Si sente uno sbattere ritmico che, finita Ceremony, va a tempo con una canzone dei Blur.

"Lei è in camera sua, che ti sta aspettando", mi fa Eco.
"Lei chi?"
"La padrona di casa. Quella che ha organizzato la festa. La tizia di cui ti parlavo"

Ah. "Dove?"
"Corridoio, poi a sinistra"
"Corridoio, poi a sinistra", mi mastico tra i denti. Gli faccio un cenno di saluto, sentendomi un po' ridicolo perchè non è che mi sto spostando poi chissà dove.
Quando busso alla porta in-fondo-al-corridoio-a-sinistra la voce che prima aveva risposto al citofono mi dice di entrare. Ha un tono deciso, che non so se mi sta antipatico o meno. Sospendo il giudizio perché non mi suona arrogante.

E' seduta a gambe incrociate, coi piedi nudi, questa ragazza di colore coi dread, che avrà grossomodo la mia età, o forse qualche annetto in più. Giusto due al massimo. Non glieli dai da nient'altro che gli occhi e l'espressione abbastanza seria. Davanti a lei, sul letto, una scacchiera.
"Cristiano?", mi fa.
Annuisco. Vorrei dire qualcosa di simpatico ma mi riesce vagamente imbarazzante chiederle anche il nome. Non glielo chiedo e, a lei, sembra andare benissimo così.
Mi sorride, mi fa cenno di sedermi sul letto.
Ho la naturalezza di una spranga d'acciaio.

Mi dice che Eco gli ha parlato molto di me. Per un momento, non faccio molto caso a nulla, oltre al suo modo di parlare. Ha una cadenza africana forte e stacca le parole con durezza. Mi piace.
Con troppa sicurezza, gli racconto la mia chiacchierata con Eco, di qualche giorno fa. Di come mi ha detto che loro sono capaci di far cose. Lei sorride, come se avessi appena esagerato un po' la realtà delle cose.
"Giochi a scacchi?", mi chiede.
Gioco. In realtà sono più bravo a cazzeggiare per mangiare pezzi che a fare una strategia per lo scacco matto.

"Bianchi o neri?"
Mi guarda fisso. "Bianchi, apro io"

giovedì 19 giugno 2008

Capitolo uno. Damanarabaga

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D'estate succedono cose.
In Giappone, l'estate è la stagione dei fantasmi. A Bali festeggiano il Galungan e il ritorno degli dei sulla terra.
A pensarci non è così strano. Basta essere costretti ad aprire le finestre, di notte, per cambiare prospettiva. Improvvisamente ti accorgi di tutti quei rumori che prima si schiacciavano contro i doppi vetri delle finestre. Senti l'oscurità che crepita di grilli, il ronzio degli insetti, le voci smorzate dei tuoi vicini e quelle spettrali e azzurrine delle televisioni dalla veranda vicina. A volte stai stravaccato in balcone, con quel buio come interlocutore, quello che hai tenuto fuori casa per più di sei, sette mesi e che adesso ha un mucchio di roba da dirti.
Che tanto, non è che il buio si offenda facilmente.
Oppure cammini per le strade svuotate, dissanguate dall'esodo dei vacanzieri. Cammini su e giù dal marciapiede, che per una volta non fa tanta differenza.

Capisci perché i giapponesi sono un popolo così avanti, oltre che per averci dato Goldrake e Mazinga. Hanno intuito che la magia è più realizzabile in un momento in cui puoi camminare senza stare sul marciapiede.

L'estate dei miei nove anni la passai con i miei genitori in montagna. Giocavo sempre con questa bambina di un paio d'anni meno di me, la figlia della proprietaria dell'albergo. Lo stereotipo della bambina teutonica, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, le guance sempre rosse dal freddo. Giocavamo a costruire pupazzi imbrattati di sangue con vecchi sacchi del pattume e ketchup. Lei, che non ricordo più come si chiamasse, mi aveva convinto che ci sarevbbero serviti da feticci per proteggersi dai fantasmi. Me n'ero innamorato, non c'era pezza.
Quanto ai fantasmi, che ce ne fossero nell'albergo era un'inconfutabile dogma di cui tutti noi bambini eravamo convinti. Stavano nel seminterrato, usato come magazzino da un mucchio di anni. Ci si entrava da un ingresso in cortile, una scala che portava giù.

Nei miei ricordi, è la scala più lunga del mondo. Non riesci mai a vedere gli ultimi gradini perché sono sempre seppelliti nel nero più nero.

L'atmosfera da It intossicò la popolazione under 13 dell'albergo. C'eravamo noi bambini più piccoli che ci terrorizzavamo a vicenda. Giravamo nei pressi della scala senza osare scendere mai, escogitando piani di battaglia per scacciare i fantasmi, maturati grazie alle nostre acerbe ma intense frequentazioni di film horror.
Finché uno dei bambini non ci smontò completamente.
Venne a dirci che stavamo cannando di brutto. Che nel seminterrato non c'erano davvero i fantasmi.
C'era IL DIAVOLO. Ok, anche a dieci anni c'eravamo accorti abbastanza in fretta che il soggetto in questione era uno sparapalle professionista. Ma, dalla sua, un pomeriggio ci aveva fatto vedere il cadavere di un topo in cortile. Era stato ucciso evidentemente DAL DIAVOLO. E il DIAVOLO, proprio pochi minuti dopo, aveva deciso di far piovere.

In quel periodo, Winona Ryder de Il Crogiolo poteva pupparcelo a tutti, quanto a paranoia mistica. Però quando stavamo a sentire per bene nel silenzio più assoluto, i passi li sentivamo, da quella fottuta scala.

I più grandi se la ghignavamo di brutto alle nostre spalle, approfittandosene per aumentare a dismisura il nostro già critico livello di strizza. E, un giorno, pisciarono decisamente fuori dal vaso.
Colpa nostra: gli avevamo talmente rotto le palle con questa storia del diavolo, chiedendo di proteggerci, di scendere nel seminterrato e almeno vedere cosa stava succedendo. Ridursi a implorare i ragazzi più grandi, che a quell'età sono quanto più si avvicina a un nemico naturale, vi fa capie a che livello eravamo arrivati. A pensarci adesso, non erano nemmeno cattivi ragazzi. Ci spaventarono giusto un paio di volte, passando le altre a cercare inutilmente di convincerci che stavamo immaginando ogni cosa.
Altri al loro posto ci avrebbero picchiato. Di gusto.

Così, un bel giorno, il gruppetto dei grandi ci raggiunge a questa scala. E' gente tutta sogghigni con i capelli massacrati di gel e la faccia piena di brufoli. Si salutano dicendosi amigo tra loro, come certi paninari nei fumetti delle pubblicità su Topolino. E hanno dei sassi in mano.
"Avete paura dei mostri, eh?"
Uno di loro, nemmeno troppo grosso, stringe la sua pietra in mano.
"C'avete paura del mostro di Firenze? Che c'è, il mostro di Firenze là dentro?". E ride. Da lì noi intuiamo come non abbia capito un cazzo.

Perchè lì non c'è il mostro di Firenze (che poi avevamo sentito nominare giusto a un qualche tg di striscio). C'è il DIAVOLO.

Gli pigoliamo qualcosa che dovrebbe essere un avvertimento.
Niente.
Prende la mira con la pietra.
"Fatti questo, mostro di Firenze!"
La lancia con violenza, giù nel buio della scala.

Il diavolo caccia un urlo.

Sentimmo l'urlo venir su dal seminterrato.
Ancora adesso, l'ho perfettamente in mente e faccio comunque fatica a descriverlo. Era qualcosa che aveva a spartire con un ruggito felino, da pantera, e che terminava in alto nel grido furibondo di un uomo.
Non cominciammo a correre. Ci trovammo che correvamo già, con la bocca spalancata in un urlo silenzioso, senza fiato. Che tutto il fiato se l'era asciugato la paura. E intanto pensavamo che era impossibile che gli adulti non l'avessero sentito, non era possibile che fossimo stati solo noi, non era possibile.
E invece no. Quando ci rintanammo nell'albergo, la padrona ci chiese cosa fosse successo. Io guardai la mia socia, lei guardò me. Non ci avrebbero mai creduto. Mai. Però noi l'avevamo sentito. Ci bastò evitare di fissarci oltre, per capirlo.

La vacanza non durò molto. Entro pochi giorni tornammo alle nostre case e, in effetti, non è che avevamo molto da fare. Non giocavamo nè scherzavamo più sul discorso fantasmi. O sul diavolo. Forse, in maniera istintiva, sentivamo d'esser stati noi a creare la qualunque cosa ci fosse là sotto. E che l'unico modo di placarlo era non dargli ulteriore forza.
Non parlammo neanche più di quanto era accaduto. A volte mi veniva da gridarglielo in faccia. Ve lo ricordate? Come fate a non ricordarvelo ogni cinque minuti?
Non era cercare di far finta che non fosse successo nulla, intendiamoci. Sapevamo che era successo, eccome. Ma... ecco, era anche passato. Non era il caso di rivangarlo come nemmeno di darsene troppa pena.
Era un modo di pensare che potevamo permetterci solo perchè eravamo bambini. E i bambini partoriscono e ammazzano babau ogni cinque minuti.

In ogni caso, quello fu il mio primo contatto con tutto ciò che i Narratori Criminali mi avrebbero insegnato poi.
Magia.

mercoledì 18 giugno 2008

0. Vagalamanadacata

by Jacopo Camagni


Non credo che gli altri saranno troppo contenti di questo blog.

Intendiamoci, non ho mai firmato nessun patto di silenzio, nessun voto di segretezza o roba del genere. Però tutte le volte che qualche piccola informazione è sfuggita un po' più lontano del dovuto, le loro facce sono state... uh... come potremmo definirle? Leggermente contrariate?

Beh, mettiamola così. Più scrivo, più mi trasformo in una scimmia. Converrete con me che le scimmie non se la cavano molto bene coi segreti. Sono brave a lanciarti la merda addosso e ridere un mucchio. Io ancora non sono bravissimo nel lancio della merda, ma a ridere un mucchio vi giuro che mi sto esercitando.
E me la spasserò parecchio quando qualcuno cercherà di chiudere questo blog o mi manderà dei commenti in puro stile ommioddiomachecosastaifacendo.
Già. Che cosa sto facendo?
Ora viene la parte difficile. Quella in cui trovo un inizio.

Fate conto che l'inizio sia questa chiacchierata tra me e il Russo, mentre torniamo in macchina insieme da Bologna.
Il Russo mi dice: "Ho una teoria su Dio"
"Sentiamo"
"Immagina tutta questa gente che ha bisogno di un qualcosa per spiegare quello che gli capita intorno. Roba assolutamente elementare, tipo i fulmini e stronzate del genere. Non è che questa gente ha tutti questi strumenti per dare una spiegazione razionale, no? E così si inventa un dio. Un dio per ogni cosa, mutamenti climatici, morte, malattie, amore eccetera eccetera"
Si ferma un attimo. "Ho scoreggiato"
"Ma che bella notizia". Apro il finestrino, sentendomi per un attimo un personaggio di Cassandra Crossing.
Il Russo annusa. "Ah, senti che buona! Comunque, dicevo... la gente si inventa tutta questa serie di divinità. Le prega. Offre sacrifici. Le invoca, le bestemmia. Le crea, insomma"
"Cioè, sono le preghiere ad aver creato gli dei?"
"Non tanto le preghiere in sé. E' più il fatto che tutta questa gente sia convinta siano veri ed esistano. E questo succede per così tanto tempo e attraverso così tante persone che, quando finalmente vengono fuori spiegazioni scientifiche per come funziona il mondo, è troppo tardi. Gli dei sono diventati così concreti che non puoi più smuoverli da dove sono. Magari puoi trasformarli, puoi immaginarteli in un altro modo e far cambiare loro forma, ma non puoi cavarteli di mezzo"
"E più gente ci crede, più quegli dei diventano pezzi da novanta?"

Il Russo annuisce. "Esatto. Sono più reali, diciamo"
Per un attimo sta zitto e penso abbia scoreggiato di nuovo. Così, tanto per star sicuri, tiro di nuovo giù il finestrino.
Invece ha la faccia tesa e guarda sullo specchietto. "Perchè quella macchina ci sta così appiccicata?"
E' vero. Una macchina ci sta attaccata al culo, prima di superarci e macinarsi qualche chilometro davanti a noi.
Io un po' lo immagino, perchè ci stesse così vicina. Ma non dico niente, come del resto sto zitto anche adesso. Perchè ho bisogno di dirvi le cose per gradi.

Ricollegate tutto. I primi popoli primitivi che disegnavano i loro omini vittoriosi sulle pareti delle caverne, per propiziarsi la caccia. Era un modo di raccontare una storia, in fondo. E quella storia influiva pesantemente sulla realtà.
Alan Moore che dice di aver incontrato davvero un personaggio dei suoi fumetti. Grant Morrison che scrive roba che gli si ripercuote addosso nella vita reale, come la versione su pagine di una bambola voodoo. Pensate a tutta quella magia che si basa su roba scritta e su stronzate di proverbi come verba volant scripta manent. Ad Antonin Artaud che raccontava di come lo stessero maledicendo a distanza, dal Tibet fino a Parigi, e che poco tempo dopo muore di cancro.

(Fate una prova. Aprite Google. Cercate Forma Pensiero e vedete cosa vi esce fuori)

Questo è quello che mi dissero, quando entrai nell'Internazionale dei Narratori Criminali. L'immaginazione è potere. Più intensamente immagini qualcosa - e convinci gente a immaginarla con te - più la farai diventare reale.
Sì, suona come una vaccata. Credete che non lo sappia?
All'epoca non ci credevo nemmeno io e ho dovuto sottopormi a un lungo, lungo periodo di iniziazione per accorgermi quanto ci fosse del vero, in tutto questo.

E' per questo che apro questo blog.
Un piccolo esperimento tra me e voi. Una piccola scommessa. Io vi racconterò tutto, qui. Di come sono diventato un Narratore Criminale e di fatti miei un po' più personali. Tutto mischiato. Così che non capiate proprio niente di quando sto dicendo la verità e quando mi sto inventando le cose. Sceglierete voi. Ma lentamente, comincerete a immaginare con me.
E darete potere alla mia storia.

E quando ne avrò abbastanza, di questo potere, lo userò per fare una prova e vedere se davvero ho ragione.
Scriverò della morte di Michael Jackson e lo ucciderò a distanza.
prova. piccola prova, poi si comincia.