lunedì 28 luglio 2008

Capitolo nove. Qasataravanagaza

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Regina si toglie i sandali e appoggia i piedi nudi sul sedile davanti a sé.

"E' da quando ho finito l'università che non viaggiavo così tanto in treno", le dico. Non è che mi dispiaccia. Alla fine, per uno che le auto non sa nemmeno come farle partire e ha visto troppe puntate di Lost per sentirsi a suo agio durante un decollo, il vecchio cavallo di ferro è la soluzione più amichevole. E poi come fa a non sembrarti rassicurante un coso che fa ciuf-ciuf?


La mia compagna di viaggio non trasuda esattamente sicurezza, però. La vedo lanciare un'occhiata di sfuggita ai posti di fianco. Sembra preoccupata, per un momento. Poi, la sua espressione torna la stessa di sempre: curiosa ed entusiasta come una bambina dei fumetti.
"E' il posto migliore per raccogliere storie, il treno. Entra chiunque e dentro ti ci puoi spostare come vuoi"


Due mormoni vengono a sedere a un paio di poltroncine dietro di noi. Li riconosci subito: camicia bianca, bibbia nel taschino, pantaloni scuri, cravatta improbabile.
"C'è stato un periodo in cui sembravano esser dappertutto, sparsi come spore aliene per l'Emilia Romagna. Ti fermavano sempre in due e, ogni volta, almeno uno dei due si chiamava Fratello John"
Regina scuote la testa, sogghignando. "Fratello John... come mai si chiamavano tutti così, per te?"
"Bah, John è un nome diffuso in America. E loro non sono americani o qualcosa del genere?"
"Altrimenti?", mi chiede con lo stesso tono che ha usato prima del Rituale di Babele. Quella di quando scarta la soluzione più ovvia e razionale per sentirsene raccontare una completamente folle. La mia pretesa preferita.
"Altrimenti c'è un Fratello John originale, che usano come stampo. Lo tengono segregato nelle segrete di Mormoland e lo clonano a ripetizione"
Regina annuisce convinta, con il sogghigno che è diventato un sorriso deliziato. "Sì! Oppure... oppure aspetta, magari invece Fratello John è una carica onorifica segreta, tramandata di padre in figlio, o solo ai più degni..."
Ce la sghignazziamo sotto gli occhi un po' basiti dei Mormoni, che non hanno ben capito cosa stiamo dicendo, ma ci fissano con la consapevolezza istintiva che non ridiamo con loro, ma di loro.

"Il fatto è - riprende Regina, un po' più seria - che davvero potrebbe essere così. Ogni storia è vera, se la racconti in modo che abbastanza gente, insieme a te, creda che lo sia"
"Immagino che per vera tu non intenda un semplice più convincente, giusto?"
"No, intendo proprio vera. Se una buona fetta di persone nel mondo fosse intensamente convinta che Fratello John sia un clone, Fratello John sarebbe davvero un clone"
"Vuoi dire che lo diventerebbe?"
"No, che lo sarebbe sempre stato. La sua vita verrebbe riscritta da capo a piedi. Il nostro potere, il potere di cambiare il mondo con le storie, si basa tutto su questo"

Ci fermiamo. La voce degli altoparlanti trascica in perfetta inflessione romagnola il nome della stazione. Castel Bolognese, stazione di Caaaastel Bolognese. Qualcuno, sulla banchina, guarda il treno con aria spaesata. Un odore insostenibile di merda nell'aria.

"Sì, però non è così che vanno le cose. Fosse così, il mondo verrebbe... com'è che hai detto? riscritto in ogni momento"

Me ne pento cinque secondi dopo, di averglielo detto. Di nuovo, la vedo far scattare lo sguardo in ogni direzione possibile, schiacciandosi contro il sedile. Le gambe, tese sulla poltroncina davanti si irrigidiscono e si tendono, neanche fossero percorse da una scossa improvvisa.
Sembra spaventata, e più si sforza di non darlo a vedere, più riesce benissimo a farti cagare addosso. Nel clima di paranoia in cui sprofondiamo di colpo, sembra impossibile vederci ridere fino a pochi attimi fa. Adesso l'atmosfera è puro MIO DIO CI STANNO SEGUENDO... che è piacevole solo quando la vedi in un film o te la raccontano, davvero.

"Di questo ne parliamo un'altra volta", taglia corto Regina
"Senti, non possiamo parlarne adesso, invece?"
Scuote la testa. "No, non posso. Devi renderti conto che da quando sei... sei uno di noi, sei anche diventato un bersaglio visibile per alcune persone. E qui c'è troppa gente, per non essere sicura che qualcuno di loro non sia in incognito"


La troppa gente si riassume in noi due, i mormoni, un rom addormentato e un ragazzo che legge una puntata di Dampyr.
"Maddai"
Mi alzo, mi vado a mettere vicino ai mormoni. Regina mi guarda, senza la minima idea di cosa sto facendo. Nemmeno io lo so. Di colpo mi sento euforico e fuori come un culo. Sento qualcosa dentro di me che vuole solamente divertirsi, ridere a zanne snudate, e che mi suggerisce idee abbastanza strane per farlo. Sono dannatamente su di giri e so che c'é un modo, un ottimo modo, per vedere se Regina ha ragione sul potere delle storie.

"Ehilà, ma voi siete mormoni!"

Mi guardano come se fossi completamente ubriaco. Uno nemmeno mi risponde. L'altro mi studia attentamente e annuisce. Regina continua a fissarmi, piantando le unghie nel bracciolo della poltroncina e, tuttavia, restando lì seduta dov'é.

"Come vi chiamate?"
"Fratello Greg", bonfonchia quello dei due che non mi ha risposto prima.
"Fratello John", dice l'altro. Mi volto verso Regina con un ghigno grande come una casa e, per quanto la veda ancora tesa, anche lei sbotta in una risata involontaria.
Fratello John è basso e minuto, i capelli biondo cenere tagliati a spazzola e la cravatta azzurro chiaro. Qualcosa in lui mi ricorda un cosplayer riuscito male di Michael J. Fox, in uno di quei film sugli yuppie. Di Fratello Greg, lascio che l'immagine mi scivoli addosso senza prendermi la briga di ricordarla. A pelle mi sta abbastanza in culo.
E' comprensibile, la diffidenza non si allenta nemmeno di un po'. Abituati come sono a fermare per strada la gente e farsi dire non ho tempo in tutte le lingue del mondo, Klingon compresa, il fatto che arrivi qualcuno in vena di attaccare bottone non è molto credibile.
"Tu... ehm, come ti chiami?", chiede Fratello John. Fratello Greg è disgustato. Io, invece mi chiedo se questa storia di raccontare storie e farle avverare, funzioni anche se non è tutto il mondo a crederci, ma solo un paio di persone con grande intensità.
Sto per scoprirlo.

"Io ho molti nomi", dico con un tono drammatico.

"Eh?", fa Fratello John, sbattendo gli occhi. Anche Greg sembra destarsi dal suo stato di odio apatico nei miei confronti.
Mi lancio in un sorriso che dovrebbe suonare misterioso. Non so quanto sono convincente. Semplicemente non ci penso, lascio che mi riesca naturale sorridere in quel modo.
"Andiamo. Mi conosci bene. Qualche volta ti avranno parlato di me, altrimenti mi sentirei deluso. Il ribelle della famiglia..."
"Scusi, non capisco"
"Sai benissimo cosa sto dicendo, Johnny"

Sono lanciato di brutto. Ora, una piccola parte di me sa fin troppo bene che mi sto rendendo ridicolo. Un'altra, semplicemente, non pensa. Sa che alla fine non è così impossibile.

"Strano sì, ma non impossibile. Oh, certo... dubito anche io che a catechismo ti abbiano mai messo in guardia dalla possibilità di trovarmi su un treno per Ancona"
Greg sussurra a John qualcosa in inglese, ridendo e guardandomi come l'attrazione del pomeriggio. Anche John, per carità, ma c'è un riflesso differente nei suoi occhi. L'ombra di una possibilità, quella che sussurra un perché no flebile finché vuoi, ma esistente.
Mi ci aggrappo con tutte le mie forze.

"Noi ci conosciamo già, Johnny. Sono lì con te quando senti un po' troppo silenzio alle tue preghiere. Quando lei ti ha lasciato e non riuscivi a trovarne una ragione. Quando tutto è andato secondo la volontà del Signore, e non l'hai trovato giusto. E se non senti puzza di zolfo o mi vedi con le zampe da capra, è solo perché..."

"Mi scusi, signore".
Alzo lo sguardo. Il controllore, sopra di me, toglie ogni credibilità alla scena.

Rovisto in una tasca e gli allungo il biglietto, cercando nel frattempo di scrollarmi una sensazione sgradevole di dosso, un cocktail di vergogna e qualcos'altro di più denso ma meno definibile. Fratello John si scuote. Evitiamo di fissarci, ci censuriamo a vicenda. Nessuno dei due dice nulla all'altro, e io me ne torno semplicemente al mio posto, davanti Regina.

"Sei un idiota", dice lei.
"Volevo vedere che succedeva, tutto qua"
"Cosa volevi che succedesse? Che alle tue storie ci creda una sola persona, non conta così tanto"
Mi sporgo verso di lei e il mio sorriso è lo stesso che il Diavolo ha rivolto a Fratello John. "Sei sicura che sia tutta una questione di numeri?"
Abbassa lo sguardo, ma non lo stacca mai del tutto dai miei occhi. Credo che, semplicemente, sia abituata a non distoglierlo mai. "Cos'hai sentito, mentre lo facevi?"
"Bah, niente di che"
"Niente niente?", fa lei, con una punta di delusione.

Non è vero. O forse lo é. Dipende da quanti significati sono disposto a dare alla parola suggestione: c'è stato un gran sollievo quando mi hanno interrotto, questo sì. Perché la sensazione che ho avuto, per niente bella, per un istante era quella di...

"... non riuscire a fermarmi. Che, anche se era un gioco, l'unica era andare fino in fondo, sempre fino in fondo".

domenica 20 luglio 2008

Capitolo otto. Maganataracapalaqasa

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"Che cadano le maschere", dice Eco prima di sbendarmi.

Le maschere cadono. Almeno la mia, una benda nera che mi toglie dalla faccia per poi restituirmela in mano. Senza pensarci la stringo forte.
Regina si allunga verso di me e mi bacia sulla guancia, dopo avermi tenuto abbracciato per qualche istante. Un po' come se stesse ammettendo in silenzio di aver scherzato, a proposito di tutte quelle minacce di morte in macchina.
Non era uno scherzo. Non so nemmeno se sia stata una prova, anche se ne sono abbastanza convinto. Quelle prove per testare la tua fiducia e il tuo coraggio, suppongo, e che ho passato nè in virtù dell'una nè dell'altro.
Se l'ho superata, è stato solo perchè ormai ero sicuro di non poter più tornare indietro.


L'unica luce è quella dei neon. Per quanto sia smorta e incolore, ho come l'impressione che sia la migliore possibile. Per un attimo, ho temuto di trovarmi in un posto pieno di candele.
Non so, ci fossero state le candele mi sarebbe venuto da ridere. I neon mi danno più l'impressione che tutto questo stia succedendo davvero.
Sono più realistici.


Mamma mia, che razza di coglione che sono.

E lo confermo pure, con la prima domanda che mi sboccia di bocca, non appena riesco a vedere qualcosa.
"Dove siamo?"
Regina fa un'espressione divertita. "Da qualche parte, oltre l'arcobaleno"


All'inizio, credo che mi abbiano portato in un vecchio garage sotterraneo che conosco, a Bologna.
Se è quello che dico io, dovremmo essere più o meno in centro, pochi passi dalla Montagnola e vicino a una piazza dove c'è una grossa centralina, che sembra il Monolite di 2001.
Potrei sbagliarmi, però. Potremmo essere sotto un qualunque centro commerciale un po' fuori città. Questi posti sono tutti uguali.
Non siamo soli, da questa parte dell'arcobaleno. Il garage è pieno di gente. Gente seduta per terra, gente appoggiata alle pareti o che aspetta in macchina. Tutti a guardarci e a farci sentire appena a mollo nella vasca dei pescicani.
Non è tanto il numero che mi lascia a fissarli inebetito. Me lo aspettavo che fossero in tanti, che non si sarebbe risolta in una gita di piacere tra me, Eco e Regina. E' vedere chi sono che mi fa rimanere lì, a piantare su ciascuno lo sguardo almeno due volte, per assicurarmi di non essermi sbagliato.

Dritto, a braccia incrociate, uno dei miei scrittori preferiti, pochi chili per troppi centimetri. Ci fissa come un inquisitore ansioso di processarci. Poco distante da lui, appoggiata al muro, una signora inglese sui quaranta mi punta sogghignante una bacchetta contro. Sussurra qualcosa che assomiglia ad abracadabra, ma che non suona esattamente così.
Un vecchio cantante di queste parti, robusto e ruvido come un orso, accenna ad alzare un bicchiere di Lambrusco verso Regina, mimando un brindisi. Lei risponde con una risata e un cenno di saluto. Un fumettista che conosco ci fissa torvo, la maglietta di Capitan America sul petto e una katana nel fodero, mezza sguainata. Il mio insegnante al corso di scrittura, l'unico che vedo del collettivo in cui milita, mi guarda con un'aria che non riesco a decifrare: si aspettava che fossi qui o no?
Una ragazza coi dreadlock rosso artificiale confabula con uno scrittore dalle dita piene di anelli, un bastone da passeggio con la testa di serpente e barba e capelli lunghissimi. Guardano verso di me. Lei incazzata, lui divertito. Il giapponese che disegnava i miei robottoni preferiti da bambino, ci rivolge un inchino rispettoso. Il cantante tedesco in giacca, cravatta e piedi nudi ci scatta una foto e si fa una risata.


Ma quello non dovrebbe essere morto? Quello là, con l'aureola di luce rosa?
E lui, lì accanto, non dovrebbe...? Quei due vicini, non dovrebbero essere miei amici?

No, non siamo a Bologna. E nemmeno nel Kansas.


Regina si schiarisce la voce e il brusio si trascina solo per qualche istante ancora, prima di spegnersi del tutto. Prende qualcosa, dai tasconi dei pantaloni dal taglio militare che indossa.
E' l'edizione economica della Storia Infinita di Michael Ende. La copertina è in cartoncino leggero, piena di rughe come se fosse stata sfogliata, spiegazzata, stretta decine e decine di volte.
"Metti la mano sinistra sul libro", mi dice, porgendomelo.
Eco è alla mia destra, una specie di padrino, e non fa nulla, davvero nulla per alleviare la tensione di questa specie di iniziazione a una società di... di cosa, precisamente? Ne vedo di tutti i tipi, tra sceneggiatori, scrittori, cantautori, registi, ballerini, comici, disegnatori e tantissima altra gente che non conosco.
Regina recita a modo suo, come un giuramento, il momento in cui viene consegnato AURYN ad Atreiu. Mi guarda fisso negli occhi.
"Ti diamo grande potere, ma non dovrai usarlo. Ti insegneremo a proteggerti e ti guideremo, ma non dovrai mai attaccare, qualunque cosa tu debba vedere, perché da adesso la tua opinione non conta più. Devi lasciare che tutto accada come deve accadere - fa una piccola pausa, ispirando col naso - Ora, dimmi..."

Di nuovo la sua espressione si arriccia in un sorriso.

"... sei pronto a trasgredire a tutte queste regole?"
Annuisco. "Sono pronto"
"E qual'è il tuo nome?"
Deglutisco, quando mi sento lo sguardo di Eco addosso.
"Hanuman è il mio nome"

Regina annuisce.
La ragazza coi dreadlocks fa uno sbuffo. Il giapponese alza un sopracciglio, vagamente stupito. Eco, dietro gli occhiali neri, sono sicuro che stia socchiudendo gli occhi. Come fa tutte le volte che è molto nervoso.

"Scimmia di merda...", dice qualcuno in mezzo alla folla.

lunedì 14 luglio 2008

Capitolo sette. Saranapaladacama

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Alle 21 mi vengono a prendere.
Alle 21 e 5 sono su una Toyota nera, con una benda sugli occhi.
"E' un cliché, quello dell'iniziando bendato che viene portato chissà dove - dice Eco, davanti a me, al volante - I cliché sono i nostri rituali. La nostra messa, più o meno".

"E poi chissà. Potremmo ucciderti adesso, sai?" mi soffia Regina accanto. Non mi ero accorto di averla vicino, nel sedile posteriore. La voce le si è fatta morbida di un desiderio inespresso. "Potremmo ucciderti, nascondere il cadavere da qualche parte"
Mi sento come se sfregassero un fiammifero, da qualche parte dentro di me. Non so se ho paura o se sono molto eccitato.
"Prima o poi vi verrebbero a cercare. Sapete come finiscono queste cose"
La voce di Regina si fa le unghie sulla mia paura. "Sì. Tu però saresti morto lo stesso, sia che ci vengano a cercare o no"
Eco mi interrompe, poco prima che apra la bocca per replicare. "Perchè forse siamo diversi da come ci immagini - dice - Forse siamo come quei matti omicidi che non si pongono problemi sulle conseguenze. Magari andiamo avanti, finché possiamo e finché non ci scoprono"

Anche se non posso vederli, riesco a percepire un'attesa alitata, sospesa attorno a noi. I loro sorrisi, nel buio della benda, si allargano in mezzelune taglienti quanto il ghigno del Gatto del Cheshire. Tutto il mondo si fa storto e privo di baricentro, azzoppato. Credo abbia anche finito di girare ma, finchè ho questa benda addosso, non posso esserne certo.
Regina preme una mano sul mio ventre. Le sue unghie sono decisamente più lunghe di come le portava, quando ci siamo conosciuti.
Soffia un respiro proprio vicino al mio orecchio.

Ma quando ci siamo conosciuti? Più ho l'impressione che mi si stiri a fianco, più mi sento stupido e in compagnia di estranei. Perfetti estranei.

"Magari è come dite. Magari anche far paura fa parte del cliché. Magari è..."
"Magari, magari...", risponde Regina. Per me, sta sorridendo.

Passa un tempo che potrebbe essere mezzora come un'ora, come dieci minuti. Minuti di silenzio assoluto, in cui le facce dei miei compagni rapitori sono i loro respiri. Lento e tranquillo, lieve, quello di Regina. Un po' più marcato e pesante, un po' più nervoso, quello di Eco.
E il mio? Se qualcuno potesse sentirlo, sarebbe un respirare diffidente, tenuto sommesso a forza.

"Ti piacciono i fumetti di supereroi?", mi chiede Regina.
Non so con che tono dovrei rispondere, vista la situazione. Dico un raggrinzito.
"Sei più per i buoni o per i cattivi?"
"I buoni, direi. Almeno cercano di migliorare le cose"
Regina sbuffa una risata.
"I buoni non migliorano niente. Hai mai visto Capitan America che migliora qualcosa? o Superman? o l'Uomo Ragno? Voglio dire... nemmeno gli X-Men, che dovrebbero essere quelli più arrabbiati socialmente, fanno nulla per cambiare il mondo"
"... beh, perchè..."
"Perchè sono i cattivi, che vogliono cambiare la società. Alcuni lo fanno per i loro interessi, altri contrario sono degli idealisti. Ma se c'è una cosa che accomuna il Dottor Doom e il Joker, è proprio questa. Non si fermano davanti a niente, nessun compromesso, nessun vorrei ma non posso. I buoni, invece, fondano tutto sempre e solo su quello. Dovere comune contro impulsi personali"

Eco si fa una grassa risata.
"E quindi, Hanuman, benvenuto tra i cattivi".
Poi, la macchina si ferma.

sabato 5 luglio 2008

Capitolo sei. Damanacaparadalasataza

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Eco resta perplesso.

Siamo in uno di quei caffé in via Zamboni, quello greco vicino all'università. Ci sono andato solo una volta prima d'ora. E' stato un mucchio di tempo fa, con una mia amica, chiacchierando dell'argomento su cui avrei fatto la tesi.

(All'epoca, avrei voluto discutere tutti quei film-libri-spettacoli in cui la realtà si fonde con l'immaginazione. Tipo The Blair Witch Project o La Guerra dei Mondi per radio, di Orson Wells. Poi cambiai completamente rotta, andando a impelagarmi nella Divina Commedia di Go Nagai)



Non è cambiato nulla, da che sono stato qui l'ultima volta. Ma solo perchè è stato così tanto tempo fa, e mi ricordo così poco, che potrebbe invece esser cambiato tutto. Eco guarda la stampa di quello che ho partorito nel Rituale di Babele, assorto.

La legge e la rilegge, borbottando parole fra sé. Completo bianco, occhiali tondi da sole e capelli lisci decolorati, Eco è una versione un po' più giovane di Andy Warhol. Ha solo il naso più affilato e le sopracciglia non così spesse.



"Tagliamo tutti i pezzi sensati del discorso. Qui è dove cercavi di restare controllato, non ci interessano".
Corruga la fronte. Sorseggio un the freddo, non sapendo bene se dovrei dire qualcosa o meno.
"Hic sunt leones... è come venivano indicate Asia e Africa nelle mappe romane. Nessuno sapeva bene cosa ci fosse. Scrivevano che c'erano i leoni, per dire che c'era anche molta altra roba di cui erano all'oscuro"
"Quindi sarebbe, tipo..."

"Forse un modo inconscio per dire che ancora non hai una grande idea di dove vai. Deks Troy non ti fa invece qualcosa di simile a Destroy? Anche una glossolalia che scrivi a un certo punto, questo djsytnziome, ha una certa assonanza sia con distruzione che distinzione"

Rimane per qualche momento senza parlare. Intanto, fuori, il caldo ha azzerato la presenza umana nell'arco di qualche metro. Tutto sembra dare quell'effetto da film di fantascienza anni Cinquanta, con la gente nei bunker, al sicuro dalle mortali radiazioni solari.

"La distruzione è il modo con cui il mondo cambia - riprende Eco - Solito vecchio discorso. Occorre demolire lo status quo, per far nascere o evolvere qualcosa di nuovo. Quindi, magari tutti questi accenni alla distruzione non sono troppo negativi. E' come la Morte nei tarocchi"
"Non è molto rassicurante"
"Nulla di quello che facciamo lo è, abituatici. Comunque, il fatto che sia una parola che assomiglia anche a distinzione, sembrerebbe darmi ragione"

"Beh... fico". Non ci sto capendo un cazzo e sono maledettamente confuso.

"Mi stai seguendo?"
"Certo!"
Non l'ho rassicurato nemmeno per sbaglio. Alza un sopracciglio più con la forza del suo scetticismo che con quella dei muscoli facciali.


"Sai chi era Hanuman?", mi chiede poi.

"Un dio scimmia indiano, giusto? Non è quello che accompagna il Monaco in Occidente? Ho fatto i compiti.... Viaggio in Occidente è nella mia top ten"
Anche stavolta Eco fa una faccia strana. Non so definirla. Non riesco a capire quanto mi sembri arrabbiato o semplicemente preoccupato.
"Sì... imprigionato dagli dei per la sua disobbedienza e costretto ad accompagnare Tripitaka, il Monaco. E a diventare un Buddha", aggiunge. Le sue parole hanno una gravità che mi lascia lì, indeciso se prendere tutto sul serio o liquidarlo in battuta.

"Grande! vuol dire che diventerò un Buddha?", ghigno.
Era ovvio che avrei preso la seconda opzione, no?


Il volto di Eco rimane immobile, scolpito nella sua espressione di serietà letale.
"Vuol dire che forse sarebbe meglio che ti cercassi un altro nome"
"Perché?"
"Perché ti dico che è meglio così, fidati"

Il barista ci guarda per un attimo, poi riprende a sentire la radio. Aumenta leggermente il volume. Un pezzo hip hop scivola dalle casse stereo direttamente nell'anonimato.


"Perché ti dico che è meglio così è una spiegazione veramente del cazzo"
Eco annuisce. "Sto solo cercando di evitare che tutto prenda la stessa piega della volta scorsa"
"Quale volta scorsa? Qualcun altro ha preso questo nome?"


Eco si alza, guarda l'orologio. Giurerei che si è portato dietro un orologio solo per poter fare questa scena. "Si è fatto tardi. Ci faremo vivi noi, per ufficializzare il tuo ingresso"
Molto massonic-style, penso. Me lo tengo per me, che l'atmosfera non mi pare delle migliori.

"Eco, cosa stai cercando di..."
"Ti dico solo questo - mi interrompe lui - Pensaci. Pensaci a quel nome. Non è come mettersi un nick in una chat"
"Questo lo immagino"
"Allora pensaci", dice prima di uscire.

E poi mi lascia lì. Proprio come uno stronzo.

giovedì 3 luglio 2008

Capitolo cinque. Qasatarafalaca

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"Dove vorresti fare il Rito di Babele?", mi chiede Regina, qualche giorno dopo.
"Su un treno in corsa, di notte. Diciamo che il notturno delle dodici e mezza Bologna-Rimini andrebbe benissimo"
Ci pensa un po'. "Come mai proprio un treno?"
Mi stringo nelle spalle e cerco di trovare una motivazione intelligente. Mi piaceva e basta.
"Beh... non c'è mai nessuno e alcuni vagoni restano praticamente vuoti. Se non passa un controllore, possiamo fare quello che ci pare"
"Potrebbero passarne", obbietta.
"Maddai, a quell'ora? Ok, non è impossibile... ma a me sarà capitata una, due volte"
Non è molto convinta.
"E poi - insisto - sei tu ad avermi fatto una testa così, a dirmi che il significato del rituale è la mutevolezza, la varietà, il cambiamento e tutto il resto. Se ci pensi non c'è luogo migliore, per farlo, di uno che non sta mai fermo nello stesso punto"
"Perfetto. Adesso è un discorso sensato", sorride lei.

Perché - mi spiega poi Regina, mentre la partenza del treno inizia a farmi scorrere di lato il mondo - quella della Torre di Babele non è stata una maledizione. E' stato un desiderio esaudito, quello di raggiungere Dio.
Immaginatevi tutta questa gente che ha sempre detto mamma, papà, amore, paura allo stesso modo. Usando le stesse parole. Con gli stessi suoni, prodotti dalle stesse vibrazioni delle corde vocali. Immaginatevi quest'armonia forzata, di chi non può nemmeno concepire il concetto di differenza, perchè c'è un'unica, identica maniera di chiamarlo.
Salgono. Salgono. Salgono ancora, sempre più vicini alle nuvole. E un mattone dopo un altro, via via che ogni piano della Torre viene completato, alcuni pronunciano la parola soddisfazione riempiendosene la bocca, altri con un sussurro più sottile, come se capissero quanto possa essere fragile. Altri ancora con uno sbuffo sarcastico.
Finchè non ci sono operai per cui la soddisfazione è un groviglio di lettere irragiungibile, mentre per altri è una parola fluida, da lasciarsi scivolare fuori dalle labbra con piacere.

Pian piano, ognuno ha un nome diverso per la stessa cosa. E per ogni nome c'è tutta la storia passata e futura di chi lo pronuncia e dei suoi discendenti.

Mentre il notturno Bologna-Rimini scivola via dalla stazione, Regina mi racconta che il Rito di Babele è la più vecchia forma di iniziazione per ogni Narratore. Ci si concentra, si buttano su un foglio sillabe a caso, a cui siamo noi a dare un senso. Si scrive tutto ciò che passa per la testa, nella lingua o non-lingua che si vuole. Si cerca un significato e quel significato, allora, non può che essere vero e importante. Tutto significa potenzialmente tutto.
"Si racconta che facesse così anche la Pizia di Delfi, quando veniva posseduta da Apollo. Ed è il senso dei vecchi abracadabra delle favole o del dono delle lingue della Pentecoste. Fino ai Dadaisti o ad Antonin Artaud, che cercarono di esportare il Rituale di Babele alle masse", mi racconta lei.

Io ho un lettore e un CD con un solo mp3 in memoria, un pezzo dei Post Contemporary Corporation, per concentrarmi. E un portatile con poca batteria. Se regge il tempo necessario... stavo per dire: se regge il tempo necessario, mi convincerò che dietro tutti questi discorsi c'è qualcosa di vero. Non fosse che ci credo già, inutile prendersi in giro.
Comincerò a scrivere. Regina mi consiglia di buttar giù qualche riga normalmente, come se non ci fosse nessun rituale in ballo. Le prime... come si chiamano, glossolalie? verranno fuori per conto loro. I primi deliri anche. E poi nemmeno me ne renderò conto, che non riuscirò più a parlare normalmente.

Tutta una questione di focalizzare, dice.

Qualunque cosa verrà fuori, la copia-incollerò qua sopra.

aggiornamento.
sono qui che comincio. Fuori è un buio pesto e io so, come non saprei dire, che è l’ultima volta e la prima (forse) che faccio una roba simile. Relax. Non so quando farà effetto. Mastico parole ruminante ruminante ruminante parata di danze, prosciugare, karma. Regina mi ha detto di buttarle giù così senza nulla sissignore venga ya! Como un perro! Cron. Non credevo andasse giù così velocemente. È bene? È male? Penso troppo. Salma d’host rotare est en particuler. Vecia panacia. Penso di cancellare paroole che mi sembrano troppo hic sunt leones ridicole , qualcosa deks Troy mi fa sentire baden powell nam ohm uuh nam kyo tau uhh troppo ridicolo a mia volta ma forse devo aider gun cancello riscrivo non va bene? O forse sìmadabbrrr regina ha detto tutto ciò che voglio. Che voglio e non voglio. Protodio in forma di vitello. Drevnom djcym sdldhexj akidoddfn sksjdkdjjsjjsddsi skkkdkicibx… va e viene come un singhiozzo, ogni tanto si spegne e le dkisjdifhhnm,x,.ò pp jjs sodnc sjz psp cslsof skkdesjyln desjytln djsytnziome amoes amods shkasciya dkmascjua sjnascjya track via catene via gelo via juggernaut hanuman.

Questo è quello che ne è uscito. Carino, eh? Ora sono parecchio stanco e non credo che riuscirei comunque a trovarci un senso. Nei prossimi giorni chiederò a Regina o ad Eco di darmi una mano. Da solo, mi sembra nè più nè meno che una serie di vaccate.
Però.
Però l'ultima parola, ci crediate o no, l'ho digitata ad occhi chiusi. Come quelle sopra, poco prima di track (penultima riga). Volevo chiudere in bellezza. Solo che, invece dell'accozzaglia consonantica che vedete su, è venuto fuori questo nome. Senza uno sbaffo, senza un errore o una lettera fuori posto. Quando l'ho digitato le dita sulla tastiera sono scivolate d'istinto, trovando i tasti da soli.
Beh, a pensarci non è così strano. C'era un periodo in cui scrivevo davvero tanto di lui. Probabile che battere hanuman sui tasti mi venga abbastanza automatico.

Hanuman era il nome di un vecchio personaggio dei miei racconti. E anche di un dio scimmia hindu.

In qualunque modo stiano le cose, ho deciso che sarà questo il mio nome tra i Narratori Criminali.