lunedì 25 agosto 2008

Capitolo quattordici: Dagasarapana

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Sono giorni di maestrale e il mare è spesso una foresta impraticabile di onde.
Mi trovo a passeggiare in giro per porti, moli, spiagge abbandonate al crepuscolo. Trovo un po' più di tempo per scrivere, io, che in questi giorni farei tutt'altro.

Per farvela breve: il 18 sono arrivato dove dovevo arrivare e, come aveva predetto l'anonimo amico nei commenti, loro mi hanno contattato. Lei, cioè. Non ho mai ancora avuto a che fare con nessun altro, a parte Araba Fenice. Mi ha detto di rappresentare i Poeti Estinti ma, quando le ho chiesto di dirmi chi fossero e cosa volessero (cosa volessero da me, soprattutto), la risposta è sempre stata la stessa.

"Non fare domande. Guarda, ascolta, distraiti. Quando sarà il caso di parlare e di presentarti agli altri, lo saprai"

Sembra una specie di prova, le ho detto.
Lo é, mi ha risposto lei.

Così camminiamo, parliamo di cose futili e intime come chi si conosce da un pezzo. Lei è indubbiamente molto più vecchia di me, ma sembra essersi cristallizzata nel tempo. Non una ruga in più dai tempi in cui recitava.
E quando sorride, giuro, nel suo sorriso ci sono tutte le donne che non avrò mai.

Camminiamo molto sulle spiagge, l'avete visto nel capitolo precedente. A certe ore del mattino o della sera, ne trovi parecchie deserte, col vento che ti spruzza il mare in faccia e viceversa. E quando qualche altro essere umano c'é, Araba Fenice si diverte ad ascoltarne i discorsi.
Legge i commenti di questo blog, li commenta a sua volta. Mi dice di salutarti, Rav, e che ti aspetta per una vecchia storia rimasta in sospeso.
Io, invece, non posso fare a meno di notare che la gente che sta scrive qui manda messaggi sempre più strani e inquietanti, di recente. Per quanto possano valere i miei giuramenti in proposito, vi assicuro che non sono io che mi autospedisco minacce e oracoli. Ne so quanto voi e, no, non che trovi nemmeno io la cosa molto rassicurante.
Ma va bene così, anzi benissimo. Una delle ragioni per cui ho iniziato a scrivere, oltre a voler uccidere Michael Jackson (tranquilli, non me ne sono scordato) è spaventarmi un po'.
Adoro avere questo genere di paura.

"Cosa ti hanno insegnato, per ora, Eco e Regina?", mi chiede un giorno Araba Fenice.
Rimango in difficoltà. Tante cose, nessuna. Tutto è stato un po' troppo caotico negli ultimi tempi, tra iniziazioni, riti di Babele, eggregori e Agenti della Coerenza.
"Tu cosa mi insegnerai?", le chiedo, tanto perché rigirare le domande è la cosa migliore in cui riesco, quando non so che altro dire.

Ti insegnerò che le storie non nascono solo da sogni, linguaggio e fantasia. Nascono da paura, pugni nello stomaco, rabbia cieca e mele avvelenate. E che sono storie potenti, perché urlano più forte delle altre, ti si attaccano addosso e ti cambiano per sempre. Per sempre.

Non me lo dice davvero. Lo pensa abbastanza forte, però. E mi sorride, come se avesse capito che ho capito anche io.

"Qual'è uno dei tuoi ricordi peggiori?", chiede poi.
"Perché vuoi saperlo?"
"Perché è comunque una storia. Voglio vedere come ne racconti una che non vorresti ricordare"

Rimaniamo un po' in silenzio, noi due.

"In riva al mare, io e mio padre, anni fa, come me e te adesso. E' stato dopo una litigata furibonda tra i miei. Io adoravo nuotare, lo adoro anche adesso. Se vado in acqua non ne uscirei mai: mi ci sdraio, ci sbraccio, nuoto malissimo ma mi diverto. Lo bevo e lo abbraccio, lo faccio fino a perderci il fiato. E' sempre stato così per me"
"Anche allora, il giorno in cui i tuoi litigarono?"
"Sì. Mio padre mi aveva portato a nuotare per farmi distrarre, ma io avevo lo stomaco chiuso. Guardavo il mare e sentivo un rancore improvviso contro di lui, contro i miei genitori, contro il posto in cui ero, dove mi divertivo fino a qualche giorno prima e mi sarei divertito il giorno dopo.
"Mio padre mi chiese se volevo nuotare o giocare un po'. Volevo farlo, beninteso.

"Però continuavo a guardare il mare con lo stomaco che nemmeno andava su e giù come prima, ormai. E alla fine dissi a mio padre di no"

Rimango un po' in silenzio. "Non una gran cosa, eh? Molto banale. L'ho raccontata anche male, di fretta. Però, non riuscirei a farlo in modo diverso"
"Forse", dice lei, indecifrabile.
Non so se si riferisca al fatto che non sia una gran storia, che l'ho raccontata male, che non potevo trovarle un abito migliore, per così dire.

Poco lontano, una ragazza ci guarda. E' vestita con una maglietta smessa, un paio di pantaloncini corti, occhiali enormi, di quelli anni Settanta.
Per un attimo sono quasi sicuro sia il mio eggregore custode, Allecto. Ma non ha i capelli rossi, sono neri e lisci, e la faccia è di chi ti fissa e contemporaneamente pensa cazzo guardi?

Sussurro la frase con cui, nei racconti da cui è nata, firmava sempre le sue lettere. Exù Rei. Così, tanto per stare sul sicuro e un po' per gioco.

Non risponde, volta lo sguardo e io mi sento un po' triste.

mercoledì 20 agosto 2008

Capitolo tredici: Gadanaracasata

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Lei mi cammina accanto, oscurando con la sola presenza le prove generali di tramonto delle sei e mezza del pomeriggio. Piedi nudi sulla sabbia, è la dimostrazione vivente di quanto le persone non siano mai attente a nulla.

Perché, va bene, potrai non aver visto abbastanza film porno da riconoscerla, ma solo un paio di anni fa era un continuo di speciali televisivi su gente che giurava di averla vista viva, gente che assicurava di averci avuto una relazione, gente che garantiva di essere un suo qualche figlio nascosto. Anche il nome da battaglia non è proprio, per dirla con le parole di Eco, sotto le righe.
Araba Fenice.

Araba Fenice mi chiede: "Hai ancora paura?"
"Solo delle chiacchiere della gente", le rispondo. In un solo tratto di spiaggia, ho sentito almeno un chilometro di battute fuori luogo su immigrati, clandestini e non, e di discorsi che non avrei mai creduto possibile esistessero. Troppo da macchietta, da cattivo di un brutto fotoromanzo.

Faccio un sospiro che suona un po' strozzato.

"Sarebbe bellissimo qui, se non ci fosse nessuno. Se qualcuno avesse l'idea di irrorare la zona coi gas nervini"
Araba Fenice annuisce. Fa uno dei suoi sorrisi, obliqui e sfaccettati. "Una volta, ho parlato con la tua amica... Regina. E' stato prima di unirmi ai Poeti Estinti"
"E...?"
"Ed era affascinante, senza dubbio. Ti stupiresti se ti dicessi quante persone la reputano tale. Sai che molti la considerano il leader di tutti i Narratori Criminali?"


In realtà, mi stupisce solo fino a un certo punto. Ho visto come la salutavano il giorno della mia iniziazione. Chi amichevolmente, chi con deferenza e chi affogando quella stessa deferenza in una punta di sarcasmo. Sia come sia, la rendevano tutti una specie di omaggio.

"Affascinante, sì - prosegue Araba Fenice - ma il suo difetto è di avere una fiducia un po' ottusa verso le altre persone. Tutti"
"E tu no?"
"Ma guardali, Hanuman. Guarda ognuno di loro. Di cosa parlano? Di come gliel'hanno cantate a quell'ambulante? Di come bisognerebbe sparare a certa gente sui gommoni? O di come è inevitabile chinarsi e leccare il suolo su cui camminano i propri capi? Ci pensi a come sarebbe il mondo, se loro avessero il potere di rendere reali le storie che sognano?"

Cerco un contraddittorio, uno qualunque. Forse, in questo momento sono troppo stanco per trovarne uno convincente. Anche il mare sembra averne abbastanza delle chiacchiere inutili, delle lamentele in saldo, dei discorsi da mercato. Sento il suo stomaco torcersi in varie ondate di disgusto.
Vicino a me, sotto un ombrellone, qualcuno parla di drogati. In termini che lascio alla vostra fervida immaginazione.

"La gente non merita fiducia - continua lei - Chi è capace di immaginare una vita migliore, sopravviva. Gli altri... beh, comincia a pensare che potrebbero non essere quelli della Coerenza, i nemici. I nemici sono loro. Questi che vedi intorno a te, consorti e figli al seguito. I nemici sono gli altri".

sabato 16 agosto 2008

Capitolo dodici: Lavaganasaradaba

by Jacopo Camagni

Non ha detto molto, da quando Hanuman l'ha liberata.
Ha detto di chiamarsi Allecto. Chiamarsi, farsi chiamare, non ha molta importanza. I nostri veri nomi sono quelli che ci scegliamo, ha sentito dire qualche tempo fa.

(Hanuman a volte pensa di averla presa troppo alla lettera, quella frase. Succede quando deve sforzarsi per farsi tornare in mente il proprio nome di battesimo)

Allecto è un carcere. Una prigione.
Le prime volte in cui si parlava della Fortress Europe, Hanuman credeva fosse un luogo. Gliela descrivevano come un campo di concentramento, una piccola Guantanamo in cui il nemico buttava dentro i ribelli catturati. Un posto da qualche parte in Grecia.
Ci sono volute un bel po' di indagini, settimane di appostamento e sospensione dell'incredulità, per farsi un'idea precisa di come stavano le cose. Fortress Europe era una prigione per eggregori, creature immaginarie, personaggi dei romanzi e virus memetici considerati pericolosi per il Nuovo Ordine Mondiale. Una prigione per idee, in cui fantasie destabilizzanti e rese concrete dall'immaginario collettivo vengono catturate e confinate.
Ma non è un luogo.
E' una persona.
Hanno sigillato tutti i prigionieri dentro una persona reale, chiudendola a sua volta in una struttura di massima sicurezza nella periferia di Atene.
Fortress Europe è il nome con cui la gente del Nuovo Ordine Mondiale chiama Allecto.

Quando Hanuman l'ha liberata, Allecto era posseduta da una masnada di divinità dimenticate e archetipi anarchici che spingevano inutilmente per uscire. Ogni tanto era lei, ogni tanto qualcosa di diverso. Il personaggio che la possiede più spesso è Exu, il trickster della Candomblé. Quando Exu arriva, costringe Allecto a farsi del male, a ferirsi e ad assaporare sangue, sesso e carne. Allecto lo ama.

Hanuman ha lavorato parecchio per farle superare il trauma post-impianto. Perchè, per quanto lui ne ha capito, per Allecto la sensazione è quella di affogare in un magma di personalità aliene. Di ingarbugliarsi tra personaggi su personaggi che parlano attraverso il suo corpo e gesticolano attraverso le sue membra, fino a dissolversi in loro. Finché Allecto non esiste più.
Allora, ogni sera la costringe a raccontargli qualcosa. Una storia, una banalità, un episodio dell'infanzia. Qualcosa che abbia a che fare con lei sola. Impara molto: impara anche cose che forse non dovrebbe sapere, ma non ci fa caso. Quando tocca un nervo scoperto si scusa e non si sofferma troppo... ma le chiede comunque di continuare a raccontare.
Finché lei non inizia a orientarsi tra tutte le parapersonalità che le hanno cacciato dentro a forza. E si ricorda un po' di più di cosa voglia dire essere Allecto.

Va avanti così, sforzandosi di farla mangiare, tenendola ferma durante le sue crisi, improvvisando ogni volta. Perché, merda, se c'è una cosa per cui non ha MAI avuto la minima sicurezza, è proprio prendersi cura degli altri.
Lui prova ad aiutarla, in cambio lei si fa aiutare senza tante storie. In un certo senso, si danno una mano a vicenda. Le insegna qualcosa. A sparare, a fare esplosivi, a fare un'offerta ai loa e a invocare il loro aiuto. A far magia in modo letale. La vede imparare in fretta, animata da un odio freddo e consapevole che a volte lo spaventa. Un odio che non esplode mai, ma che porta a pianificare e a diventare bravi in quello che si fa. Il peggior odio possibile, di sicuro.

Hanuman spesso si addormenta vicino a lei. Si sveglia ogni tanto, di soprassalto, quando il suo respiro si fa irregolare. Si maledice perchè, ne era sicuro, ha sbagliato di certo qualcosa. Poi, lei si quieta e anche lui si calma, si riaddormenta.

Ora è lì, disteso al suo fianco. I capelli di lei gli fanno il solletico sulla guancia. Sono rossi, un rosso artificiale e molto cupo. Il naso sfiora il collo. Un naso un po' all'insù, cosparso di lentiggini. Gli respira addosso, un ritmo regolare, lento. Più pacifico del solito e piuttosto caldo.
Gli si raggomitola vicino. La gamba gli sfiora un fianco, poi si strofina su una delle sue. Allecto ha gambe lunghe, magre ma sode, con qualche cicatrice molto vecchia che lascia un sentiero sulla carnagione chiara.
Hanuman trattiene il fiato, d'istinto.
La mano di Allecto si muove lungo la pancia. Ha dita sottili, leggere. Unghie tagliate da poco, perché non si faccia del male durante una delle crisi. Anche le mani hanno qualche cicatrice. Sembra siano dappertutto. Le dita risalgono, sfiorano la barba di lui, ci giocherellano, ridiscendono lungo il collo. Si fermano sul petto, carezzandolo.
COSA CAZZO SUCCEDE?, pensa lui.

La sente spostare la testa, chinarla sul petto. Le labbra gli appoggiano un bacio appena accennato sulla bocca. Si spostano sui capezzoli e baciano anche quelli.
Il buio acquista una sfumatura strana: sembra avere una luce propria, fatta di respiri e di movimenti sommessi nel silenzio.

Hanuman si irrigidisce e... e non sa bene cosa fare.

"Hanuman", sussurra Allecto, con l'alito che ha ancora un po' del cioccolato che lui le fa mangiare quando lo stomaco le si fa di ghiaccio e non riesce a mandar giù altro.
Il petto batte con un ritmo da giungla. Il petto di entrambi.
La sua mano gli artiglia la schiena. Poi, prima che se ne renda conto, lui se la sta stringendo contro, i seni piccoli schiacciati contro al petto. Le morde il collo, leggermente. Le unghie di lei strisciano più lente contro la colonna vertebrale.

L'aroma di quello strano sapore di cioccolato gli invade la bocca.

*

Una volta, Hanuman era il nome del protagonista di alcuni miei racconti. Era il personaggio che interpretavo in una campagna di giochi di ruolo. Allecto se l'era inventata una mia amica: la storia era un po' diversa da quella che vi ho raccontato adesso, ma c'erano molti punti in comune. Hanuman e Allecto erano più o meno una coppia: pianificavano azioni di sabotaggio e sparavano ai cattivi. Erano terribili e si divertivano a essere tali.

Ora. Sto partendo, lo sapete e sapete cosa sto andando a fare. Gli ultimi messaggi mi stanno spaventando a morte, perchè - non so come - chi ha mandato il messaggio su quello che dovrebbe succedermi, ha sparato una data che non sembra affatto buttata lì a caso. E riguardo a quello che si è firmato come Eco... beh, poco fa ho parlato con lui. Con quello vero, cioé. Dice di non aver mai mandato nessun commento.

Io non so cosa vogliano da me. Ma che cazzo, sono l'ultimo arrivato.

Quindi, ecco cosa sto cercando di fare. Ho provato a creare un eggregore. Se è vero che c'è qualche assonanza tra me e il mio personaggio, prenderne un altro a cui Hanuman è stato molto legato, mi sembrava l'idea migliore. Allecto non è esattamente come l'aveva immaginata la mia amica. E' più... mia, in un certo senso. Ci deve essere qualcosa di me, per darle vita. E mi scuso con chi digerisce poco scene di questo genere: per darle un corpo, descrivere la sua prima notte con Hanuman mi pareva la cosa più giusta da fare. Anche questo raconto è una versione più mia di una cosa che scrissi a quattro mani con la mia amica. Partire e rielaborare un racconto rimpallato tra me e un'altra persona dovrebbe aiutare a rendere Allecto un po' meno finta.

Ora, ecco un favore che vi chiedo. Aiutatemi a darle corpo. Eco mi ha grossomodo spiegato che divinità, angeli custodi e personaggi immaginari si evocano allo stesso modo, visto che sono la stessa cosa. Si tratta di renderli concreti credendo nella loro esistenza o almeno non negandola a priori. Io non so se davvero funzioni così: a me sembra troppo facile e in stile Mary Poppins. Ci penso e mi dico che, con questo discorso, quando si è bambini si dovrebbero evocare eggregori a nastro. Beh, se uno pensa a quanti bambini sono convinti di avere un amico invisibile o un mostro sotto al letto, magari ha senso.
Comunque ripeto: non ne ho idea. Non ne ho idea di cosa si debba fare davvero. Posso solo scriverci su e immaginare fino a sanguinare.
Se il tutto funziona, non credo che si manifesterà tipo apparizione, intendiamoci. Magari sarà una ragazza che le somiglia, magari qualcuna che condivide determinate caratteristiche. Magari aiuterà semplicemente a rendere qualche coincidenza più favorevole. Come vi spiegavo all'inizio, questo genere di cose è un po' simile agli uomini preistorici che disegnavano scene di caccia.

Si vede molto che è la prima volta che faccio qualcosa del genere, vero? Temo che l'improvvisazione sia il piatto del giorno. Magari Allecto non verrà stabile come Michael Jackson, ma a me basta anche meno, anche che... non so. Ehi, avete notato quante volte sto ripetendo questo non so, negli ultimi tempi?
Merda.

Però è una garanzia di protezione, se riesce. Se dove vado si mette davvero male, ho una possibilità su un milione che qualcosa di simile ad Allecto mi dia una mano.

Ok, se iniziate subito a prendermi per matto, vi assicuro che non andremo molto avanti.
E da qualche parte bisognerà pure che cominci anche io.

venerdì 15 agosto 2008

Capitolo undici: Nasaradagamavata

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Innanzitutto, grazie ad amici e conoscenti per i consigli.
Li ho ascoltati, davvero. Anche se molti di voi potrebbero dubitarne, nel leggere le prossime righe.

Parlo un po' di questa storia con Eco.
Per quanto lo conosca ancora poco (sicuramente meno di Regina, con cui vado a spasso da fin dopo l'iniziazione, più o meno), mi viene più spontaneo discuterne con lui. Eco ha sempre l'aria di avere la situazione sotto controllo, che tutto sia grossomodo gestibile.
E, signore e signori, non credo occorra un corso di psicologia per capire che ho una paura fottuta, dopo quello che è successo.
Io ed Eco decidiamo di sceglierci un altro posto, invece del bar che bazzichiamo a Bologna. Senza bisogno di specificare troppo, un posto tranquillo e non troppo in vista.

Gli spiego la situazione, con la sicurezza che mi spezzi l'osso del collo solo a conoscere l'esistenza di questo blog. Glielo dico di fretta, un tentativo squallido di fast talking che suona più o meno come: "equindinelblogincuiraccontoquestastoria..." e vira immediatamente sullo scorso post e sui gentili ospiti che me l'hanno lasciato.
Eco rimane impassibile. Credo siano quei suoi occhialini a renderlo così. Non lasciano intravedere niente, dello sguardo.
"Cosa pensi di fare?", chiede.
Alzo le spalle. Non lo so, mi verrebbe da dirgli. "Non lo so".
Annuisce, come fosse una risposta che si aspettava. Guarda davanti a sé e, qui dove siamo noi, il cielo notturno è una ragnatela di fulmini. Non piove, però.
"Avete incontrato un Agente della Coerenza. Pensi che potrebbero essere loro?", mormora alla fine.
"Boh, per quello che ne so, sì. Anche. Che ne so. Quello che ho visto io, era meno umano di una webcam. Ci fissava di continuo, ogni tanto sembrava perderci e poi ci fissava ancora"
"E' perché non vi vedeva. Buona parte degli Agenti è cieca. Captano solo le interferenze nell'immaginario e chi le produce. Quando non vedono o sentono nulla, significa che va tutto bene"
"Allora quelli che hanno crackato il blog non possono essere Agenti della Coerenza, giusto?"
Passo sopra anche l'ultima, mostruosa affermazione di Eco, pur di ritagliarmi questo brandello di tranquillità.
Lui mi fa un sorrisetto saputo, tanto per sottolinearmi che non è mai così facile. "Prima cosa: non tutti quelli che lavorano per la Coerenza, sono Agenti. Alcuni lo fanno in maniera inconsapevole. Altri sono comunissimi esseri umani. Altri ancora una volta erano dalla nostra parte, per poi cambiare idea"
"Traditori?"
"Loro ti direbbero semplicemente che vedono le cose da un'ottica più matura. Ce ne sono sempre di più, via via che passa il tempo. Ma prima sfatiamo il mito numero due"
"Sarebbe?"
"Non siamo due eserciti, tutti compatti da una parte e dall'altra del fronte. Per quanto ne so, questi che ti hanno scritto potrebbero condividere ogni minima nostra idea ed essere matti come cavalli. Magari vogliono ammazzarti per dimostrare una qualche loro teoria. Magari farti il lavaggio del cervello, magari offrirti un the. Non sapere un granché gli uni degli altri è sempre stata la nostra più grande debolezza"

Rimaniamo un po' in silenzio. Altri fulmini all'orizzonte, altra promessa di pioggia.

"Credi possano sapere dove sono o chi sono?"
Lui aggrotta la fronte, in un'espressione che suona quasi divertita. "Non è che tenere un basso profilo sia la tua specialità, Hanuman. Io ti ho detto un mucchio di volte che buona parte delle cose che fai è pericoloso. Ma prendersi un nome da scimmia implica anche ragionare come una scimmia, immagino..."
"Ah, e basta rompere le palle con questa storia del nome!"
"Perchè hai scelto proprio quello?"
"Era un mio personaggio di un gioco di ruolo. E di qualche racconto. Un mago terrorista, di religione hindu. Ok... lo so che è qualcosa di stupido"
Eco però non mi guarda come fosse qualcosa di stupido. Mi guarda con l'aria di chi abbia le idee un po' più chiare riguardo a un paio di domande che, ovviamente, si tiene per sé.
Ci rimugina un altro po'. Quando riprende a parlare, l'argomento nome in codice Hanuman è acqua passata. "Regina ti direbbe di tenerti alla larga da loro. Farti proteggere, finché non ti lasceranno perdere"
"E tu, che dici?"
Scuote la testa. "Chissenefrega, di quel che dico. Tu cosa vuoi fare?"

Si alza un po' di vento. Anche una puzza stomachevole, che attraversa i campi intorno a noi. Concime, probabilmente... cagato però da una divinità da incubo primordiale, per l'odore che fa.
"Io ho una gran paura, Eco. Però sono maledettamente curioso"
"E quindi?"
"E quindi andare mi sembra davvero assurdo, ma una parte di me ne avrebbe voglia. Vedere l'altro punto di vista"
"Allora fallo"
La frase rimane un po' sospesa in aria, prima che mi renda conto di cosa voglia dire. "... eh?"
Eco si stringe nelle spalle. "Sembra vogliano dirti qualcosa, no? Se non parli con loro, non saprai mai cos'é. Un altro punto di vista? lo accetterei anche se me lo stesse offrendo il mio peggior nemico"
"Va bene... ma potrebbe essere una trappola. Non dovrebbe essere questo, il punto del dialogo in cui mi dici una cosa simile?"
Eco annuisce, accendendosi una sigaretta. "La conoscenza è sempre legata ai rischi". Il tono con cui lo dice ha un timbro indifferente, come se stesse esponendo la più grossa ovvietà del mondo.

Poi alza di nuovo le spalle. "Sono capaci tutti di non fidarsi di nessuno"


E quindi arriviamo a noi.
Tutto questo resoconto per dire una sola cosa.
Va bene. Incontriamoci e fatemi vedere, Società dei Poeti Estinti.
Per quanta paura abbia, voglio vedere.
Voglio davvero vedere.

sabato 9 agosto 2008

questo non è un capitolo.
è un avvertimento. per te e per tutti quelli che stanno leggendo
quella che credono una storia inventata.
non ci conosci, hanuman.
noi sì.
noi ti osserviamo da un pezzo.
indovinare la tua password, il tuo id, è stato semplice.
leggerti è semplice.
guardiamo cosa fai, come ti muovi, il nome che hai scelto.
ciò che stai diventando e che diventerai.
non siamo così diversi, noi e te.
oggi il mondo cambierà.
quanto sta succedendo al cern è solo l'apertura di una lunga partita.
voi giocate a scacchi immaginandovi racconti dietro le vostre mosse.
noi immaginiamo nuovi pezzi sulla scacchiera.
l'LHC è solo il primo passo.
noi ti osserviamo, hanuman.
non credere a quello che ti dicono.
ti stanno mentendo.
non fidarti di regina.
in un altro racconto, un te stesso più ingenuo ne ha pagato le conseguenze.
ecco cosa ti offriamo noi:
un altro punto di vista.
continueremo a osservarti.
e quando vorrai sapere,
ti tenderemo la mano.
La Società dei Poeti Estinti.

lunedì 4 agosto 2008

Capitolo dieci. Ravadalamacanaxa

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Comincia a seguirci non appena scendiamo dal treno.
Non me ne accorgo, sulle prime. E' Regina a farmelo notare, in mezzo a quattro chiacchiere sui nostri videogiochi preferiti di sempre (Planescape Torment per me e Deus Ex per lei).
Mi dice: "Cammina come se andasse tutto bene", così, in mezzo al discorso.


E prima di capire cos'è che non dovrebbe andare bene, sento i passi dietro di me.
Non è tanto sentire dei passi, capite: in stazione a Rimini, in piena estate, è tutto fuorché un evento eccezionale. E' il distinguerli nettamente dagli altri.
Rigidi, secchi, cadenzati. Sembra la camminata di qualcuno abituato da anni a marciare al passo dell'oca e che si sforzi di nasconderlo. Senza riuscirci. Perchè il passo dell'oca ormai gli scorre dal cuore alle gambe, fino al cervello, senza ritegno.

"Ok...", comincio.
"No. Non c'è nulla che sia ok", mormora veloce lei, sputando le parole così rapidamente che faccio fatica a sentirle.
"Ma è per quella roba che ho fatto in treno?"
Sto parlando con la voce abbassata. Odio parlare con la voce abbassata senza rendermene conto. Di solito vuol dire che non c'è una ragione per cui lo stia facendo. Solo perché si fa così.
Regina scuote la testa. "Non so, può essere. Per me ci seguono da prima. Te l'ho detto che, da quando t'abbiamo iniziato, si sarebbero accorti di te".


Camminiamo veloci dalla stazione, dritto per dritto, senza fermarsi. Attraversiamo una strada col rosso. Una macchina ci strombazza dietro e io per un attimo ho l'impressione che ci metterà sotto, proprio come quella volta in cui ho rischiato di essere investito da ragazzino, con la cassetta di In Utero in tasca e


Regina mi afferra una mano. Inizia a camminare più velocemente.
Anche i passi dietro. Chiunque ci stia inseguendo, me lo immagino che si fa largo tra le persone, spintonando, standoci sempre dietro. Non troppo attaccato a noi, finché c'è gente. Abbastanza per fare la sua mossa quando ci ritroveremo da soli.

Qualcosa dentro di me, ne è sicuro.
Fanno sempre la loro mossa quando stai da solo. Non so perché ma so che è così.


Accanto a noi, le case sanno di fatiscente. Mentre Regina mi strattona lungo la strada, le vedo trasformarsi: da magazzini ferroviari, cimiteri di macchine e di ferro, diventano brutte case. Poi le brutte case diventano vecchie villette. Le vecchie villette diventano il centro della città, un centro che sembra un lungo corridoio d'asfalto, incredibilmente spoglio e desolante a quest'ora in cui tutti sono al mare.

Non mi accorgo di quanto fiatone ho, finché non ci fermiamo per improvvisare una strada in cui andare. Destra o sinistra, testa o croce. Ansimo come uno di quei vecchi cani con la lingua a penzoloni. Ho gli occhi sbarrati e voglio solo correre ancora.
Perché cazzo sono così spaventato?

Faccio per...
"Non voltarti indietro - dice Regina - Non lo guardare. Non dargli la sola idea che sappiamo cosa sia"
"Io NON SO cosa sia, Regina"
"Seguimi, presto!"


Mi afferra di nuovo la mano e mi trascina a destra.

Faccio il bravo, non mi volto. Ti riesce sempre molto semplice fare il bravo quando hai una paura fottuta.
"Non immaginarlo. Immaginarlo potrebbe dargli potere", sibila lei.
"Eccheccazzo, e poi?"

Qualcuno ci guarda. Un paio di vecchi che sembrano saperla lunga sul nostro conto, e ridono e parlano in dialetto. Una ragazzina con una ciocca di capelli colorati di blu elettrico e una maglietta dei Death in Vegas. Un padre che spinge una carrozzina.
Perché ci stanno guardando? Cosa succede?

I passi dietro di noi, che continuano sempre alla stessa cadenza, sempre alla stessa distanza, nè più affrettati nè più stanchi.


"Presto!", fa Regina, con la voce che si impenna in alto e gli occhi sbarrati. Stringe più forte la mia mano. Inizia di nuovo a correre. Inizio a correre anche io, senza un come o un perché. Corriamo come se ne andasse delle nostre vite.

Chiudo gli occhi.

Non me ne frega un cazzo di dove stiamo andando, mi frega solo di sapere che ce ne stiamo andando da qualche parte. Regina mi strattona da qualche parte. Verso sinistra, dentro un vicolo. Io penso soltanto

In un vicolo, come nei peggiori inseguimenti da film
e poi
ci prenderanno, ci prenderanno siamo spacciati, non possiamo farcela
e anche
è sempre quando sei da solo, che fanno la loro mossa.

Lei è terrorizzata, io anche.
"Non abbiamo molto tempo"
"Da che cazzo stiamo scappando?"


Dentro al vicolo. Sedie vuote di un baretto che è in chiusura estiva, o più probabilmente in chiusura di turno. Una libreria proprio davanti a noi.
Regina mi fa cenno di aspettare, vicino alla vetrina della libreria, e si sporge dall'imboccatura del vicolo per controllare.

"E' ancora lontano", dice. Io mi chiedo come faccia a essere lontano, visto che l'ho sempre sentito attaccato a me, ogni momento, sempre i suoi passi dietro. Me lo chiedo in silenzio, perché sapere che non è proprio alle nostre costole mi risulta parecchio rassicurante.
E chi sono io per mettere in dubbio quel po' di sicurezza con qualche domanda?

Cristo che razza di schemi di pensiero di merda, mi mette in circolo 'sta cosa.


"E' un agente della Coerenza"
"Coerenza?"
Lei continua a buttare un occhio all'entrata del vicolo. "Ti ricordi in treno, che mi chiedevi come mai la Realtà non cambia di continuo, visto che basta una storia convincente per farlo? E' a causa loro, di quelli della Coerenza"
"Ma cosa cazzo sarebbero?"
"Non lo so. Non lo sa nessuno di noi. Sappiamo solo che esistono. Hanno scritto questo mondo e le sue regole. E ogni volta che qualcuno o qualcosa fa per cambiarle, provvedono a individuare l'errore narrativo e a eliminarlo. Proprio come faresti tu, quando cavi un'incongruenza in un racconto"

Recuperiamo fiato. Mi sento quasi febbricitante.
"Quindi loro sono... uh... nostri nemici?"
Regina annuisce. "Più o meno, anche se non è una questione di nemici o amici. Loro non ci considerano nemmeno esistenti, finché non facciamo qualcosa che sconvolge le regole. Te l'ho detto, sono il cancellino di Word che cava via i pezzi sbagliati di una storia"
"E quindi?"
"Dobbiamo comportarci in maniera coerente", dice lei, sciogliendosi i capelli e facendo un sorriso falso da un angolo all'altro.

"EH?"

"Se ci comportiamo seguendo i loro schemi mentali, non riusciranno a distinguere la nostra presenza in mezzo agli altri, e potremo seminarli indisturbati fino a tornare in stazione"
"Sì, ma come..."
"Ascolta. Io sono nera e tu, ogni frase che dirai, dovrai rimarcare che lo sai e non ti importa. Perché tu sei mio amico malgrado io sia nera, ok?"
"Ma che stronzata é, questa? E' ovvio che..."
"Non importa cosa consideriamo ovvio! Non capisci che il punto è questo? Tu invece, fatti dare un'occhiata... ok, sei gracilino, non fai sport... scrivi poesie?"

"Uh... qualche volta"

"Ottimo. Sei il mio amico poeta che parla solo di poesie. Sei innamorato di me, malgrado il fatto che sono nera, ma io non ti ricambio. Perché io voglio un uomo aitante e sicuro di sé, con pochi grilli per la testa. Tu parlerai solo di poesie"
"Stai scherzando, vero?"
"No, e se qualcos'altro ti suona più squallido o ridicolo di questo, usalo. Ne va delle nostre vite, Hanuman"


Usciamo.

Quasi gli sbattiamo addosso e io mi chiedo come faccia la gente a non accorgersi di lui, a non guardarlo almeno un po' strano. Un uomo vestito come il più archetipico dei Men in Black, di pomeriggio, in una delle estati più calde che ricordi.
Giacca lunga, chiusa. Bottoni fino al collo. Guanti. L'unica cosa che lascia scoperta è il volto. Proprio per questo sono sicuro che non sia vero.
Si ferma, ci fissa. Si aggiusta gli occhiali neri.

Ma quanto è pallido? sembra che il suo corpo sia fatto di carta, per come è bianco. Un bianco di quelli solidi, gessati, che nemmeno ti fanno intravedere le vene.

Regina mi dà una gomitata, mentre ci apprestiamo a camminargli accanto. Aumenta un po' il passo, calca il marciapiede appoggiando il piede come una modella.
L'uomo in nero ci fissa.
Cominciamo lo show.


"Non pensavo di poter parlare di queste cose con te". Oddio, comincio appena e mi sembra di essere davvero un mentecatto.
"Davvero?", trilla lei.
"Sì... anche se sei una donna, con te si può chiacchierare di un mucchio di cose!"
"Anche con te - risponde lei, e la sua bocca si allarga in un sorriso triste - Non capita sempre che qualcuno non si ponga problemi perché... perché..."

Lascia la frase in sospeso, come un assist.

"Perchè sei DI COLORE?", cerco di calcare molto sull'espressione. E non posso fare a meno di guardarlo, l'agente che ci sta fissando. Mi chiedo se ne se accorga. Che lo fisso, cioé. Cerco di far sì che il mio sguardo non si trattenga troppo su di lui, ma è quasi impossibile. C'è una sorta di fascino in quella pura artificialità, in quei lineamenti proporzionati e finti, in quella pelle perfetta. In tutta la sua sintetica presenza.
Ora sembra una telecamera impazzita. Sposta lo sguardo su di me e su Regina. Prima su di me e poi su di lei, poi di nuovo su di me. La gente non ci fa nemmeno caso. Il sospetto che nemmeno lo vedano, adesso, è molto più forte di prima.

"Sì... - mi risponde intanto Regina - Di solito, alla gente non va troppo di parlare con me. Ma tu sei diverso. Si vede che sei così sensibile"
Non ce la faccio più.
"E' perché sono gay, siamo sempre molto sensibili", ghigno.


L'uomo in nero pianta lo sguardo su di me.

"Niente battute, deficiente!", sibila Regina, affrettando il passo. L'uomo in nero viene con noi, ci cammina a fianco, continuando a fissarmi.
Provo a correggere. Se ho capito come funzionano questi cosi, dev'essere l'ironia che ha attivato il suo campanello d'allarme, non la frase in sé.
"Ho scoperto di essere gay da quando scrivo poesie", azzardo, più seriamente.
L'uomo in nero scuote la testa in uno scatto a orologeria, verso Regina.
"Dev'essere dura, per te. Essendo nera, capisco bene cosa significhi essere discriminati"

Non siamo molto lontani dalla stazione. L'uomo in nero continua a muoversi sempre di più come una vecchia sveglia, come un rudere tecnologico. Adesso non siamo più gli unici che sta fissando. Si guarda intorno e ho l'impressione che stia perdendo il segnale.

Decido che è il caso di rincarare la dose.


"Eppure, guardandoti, ora mi viene da mettere in dubbio tutto quanto. Per quanto tu sia di colore, sento di provare qualcosa per te"
L'uomo in nero, di nuovo, si fissa su di me. Ho sbagliato qualcosa un'altra volta?
Sorride. Non credevo nemmeno che potessero farlo. Un sorriso asciutto, una linea dura che sembra una cicatrice.

"Oh... non potremmo essere solo amici?", risponde Regina, con un capolavoro di tormento sul viso.



Pochi minuti dopo, siamo sul treno del ritorno. L'ultima battuta di Regina ha annichilito completamente l'attenzione dell'agente verso di noi. Nonostante questo, non abbiamo spiccicato una parola per almeno mezz'ora, fingendo di guardare fuori dal finestrino. Fingendo, a tratti, di dormire.
Tempo dopo, Eco mi dirà che quello è il loro potere peggiore: quello di spaventarti, spaventarti tanto da non farti parlare più, da farti scegliere con attenzione le parole anche quando non ci sono.

Non va bene. Non mi piace affatto, quindi parlo.


"Chissà che fine fanno, quelli che vengono catturati da loro".
Regina sospira. "Non so... alcuni dicono che ci siano campi di concentramento segreti, in cui vengono rieducati. Altri pensano che vengano semplicemente cancellati"
"Cancellati?"
"Cancellati", dice lei. Inequivocabile.
Rimango zitto per qualche minuto. "Mi ha guardato, prima di perdere del tutto il segnale. Giurerei che abbia pure sorriso"
"Forse qualcosa che hai detto l'ha divertito. Ricordi a che punto della discussione l'ha fatto?"



"No", mento.