mercoledì 21 gennaio 2009

Capitolo ventidue: Lamadazanacatavarafa

by Vespero

Due nomi, mi scrive KDigger.
Oneiros. Mad Molly. Questo è il tragitto per trovare Von Beck.

"Inizio e fine del viaggio, il resto te la sbrighi da solo :)", recita il foglio di carta in cui sono scritti, e che avvolge un mattoncino nero, dei LEGO.

Regina mi insegna come fanno i Narratori Criminali a trovare qualcuno o qualcosa. Come al solito, tutto si gioca sulle storie. E' di una banalità disarmante: se non sai dov'è ciò che stai cercando, te lo inventi. Basta avere un inizio e una fine della storia.
Così prendo un foglio e scrivo.

Immagino un ragazzo narcolettico. Dorme qualcosa come venti, ventun'ore al giorno e scivola nei sogni altrui. E' quel tizio in ombra che guidava la macchina, quando scappavate dal dinosauro. Quella voce non troppo familiare alle vostre spalle, poco prima che l'onda si abbatta sulla città, a mormorare che succederà tra poco tempo. Quello con cui siete andati a spiare gli alieni-ombra nell'orto e che, siete sicuri, non avevate mai visto prima di sognarlo.

Scrivo su di lui e, che esista o meno, sono sicuro che lo incontrerò nei deserti caotici della fase REM. Scrivo finchè non ho gli occhi ingozzati di sonno, gonfi e pieni di errori di battitura e ripetizioni non corrette.

Così, senza accorgermene, scivolo in una cabina telefonica e mi accorgo di essere in ritardo. In ritardo per avvisare che torno tardi, che non riuscirò a sbrigarmi, che era già ora quando mi sono ricordato di guardare l'orologio.
Sto telefonando contemporaneamente a Regina, ai miei genitori, a un vecchio amico di cui ho dimenticato la voce (e che comunque, tanto, non parlerà nemmeno ora). Butto i gettoni nella fessura. Poi non ricordo il numero. Poi lo ricordo e non riesco a digitarlo. Faccio sempre uno sbaglio. Riaggancio, riprendo in mano la cornetta. Provo a digitare di nuovo e butto un pugno sul telefono. I gettoni non scendono giù. Chissà se ne ho altri?
Cinque secondi dopo sono già alla libreria, la solita. Quella che sta contemporaneamente in mezzo al campo di grano e nel sottopassaggio di Bologna, di fianco a un labirinto di vetrine poco importanti. Non so nemmeno se sono riuscito a telefonare. In via teorica dovrei avercela fatta, visto che l'appuntamento era qui.
Rovisto in mezzo ai modellini di Mazinga sullo scaffale. Al solito, non so se rimanere deluso o meno: come tutte le volte, per quanto questa sia LA libreria, quella che contiene tutte le storie e i personaggi del mondo, non c'è mai quello che vorrei. O costa troppo. Per qualche strana ragione, esco quasi sempre a mani vuote, da qui.
C'è stata una sola eccezione, credo. Una volta ma, mentre uscivo, mi rendevo già conto che l'unico modo per godermi tutto quello che mi ero preso, era dormire per sempre.

Oneiros è di fianco a me. Non riesco a metterlo bene a fuoco, è come se rimanesse sempre ai margini della percezione. Qualcosa di familiare, però, ce l'ha. Non so bene che cosa.
"Abbiamo dato la caccia a un cervo gigante, quando eravamo piccoli", mi spiega lui.
Sì, annuisco. Sì, dev'essere quello.
Vicino a lui due strani tizi, un uomo e una donna.
Lei è vestita come un'infermiera. Ha i guanti di lattice, neri, che le arrivano fino ai gomiti. Anche il grembiule è in lattice nero. Anche la mascherina che le copre il volto, e che fa intravedere solo due luminosi occhi da gatta, con la pupilla verticale.
Fa un inchino da attrice sul palco, tenendosi entrambi i lembi del vestito.
"Ci conosciamo già - mi dice lei - Io sono quella che ti ha cucito il braccio vecch... nuovo". Fa una risatina, con una voce improvvisamente maschile.
L'altro ha una maschera, di quelle veneziane. Non riesco a capire bene il resto, è come se l'occhio lo escludesse, a parte un colore bianco, vagamente elettrico. Mi fa un sorriso pieno di denti acuminati.
"Io sono quello che si è mangiato il vecchio". Fa una risatina, con una voce improvvisamente femminile.
Faccio un saluto. Riesco a essere spaventato e a non esserlo, allo stesso tempo. E' una sensazione strana, mi fa sentire in qualche misura... fico. Ecco sì. Dannatamente fico.

"Sto cercando Von Beck", dico a Oneiros.
Oneiros annuisce. "Anche lui ti sta cercando. Sai cosa significa Ende Neue?"
"E' una canzone degli Einsturzende Neubauten, mi pare"
"Quella è Ende Neu - risponde lui, scuotendo la testa - Tieni, questa l'ho disegnata per te"

Prendo il foglio che mi sta porgendo: l'infermiera pazza e la maschera di Carnevale hanno sorrisi lunghi e l'aria di chi potrebbe leccarmi il braccio a tradimento.
Sul foglio è disegnata una donna di metallo.
"Cos'è?"
"Decidilo tu. Inventatelo. Quel che viene fuori è la tua prossima tappa", risponde Oneiros. O forse la donna con gli occhi di gatto. O forse quello in bianco elettrico. Non so.
Ho la fronte un po' increspata, quando torno a guardarlo. "Grazie", dico.
"Grazie un cazzo - sghignazza l'arlecchino bianco - Ti credevi che era gratis?"
Oneiros si stringe nelle spalle, come a dire mica le faccio io le regole. L'infermiera pazza se la ride, portandosi con garbo una mano alla bocca, nascosta dalla mascherina.

"E' tempo di cambiare armi!", dice l'arlecchino, puntandomi alla testa due dita a mo' di pistola.

BANG!, e mi centra in testa, proprio in mezzo, sulla fronte.
"Ajna Chakra!", dice, mentre i miei pensieri colano fuori dal buco che mi ha fatto.

giovedì 8 gennaio 2009

Capitolo ventuno: Pazaramalafatadanagabacasa

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Un commento sullo scorso post mi porta a fare una ricerca in internet, convulsa e molto, molto preoccupata.
Faccio piovere sul mio monitor decine e decine di cartelle di gossip, foto, chiacchiere e ipotesi, cospirazioni e segreti svelati. Un i-ching di indirizzi web lanciati a casaccio. Un susseguirsi di responsi di morte da parte di Google, l'Oracolo del Web.

La risposta è sempre la stessa. Ve la faccio breve: tanto le fonti potete verificarle da soli, su un qualunque motore di ricerca o sul vostro tabloid preferito.
Michael Jackson sta morendo.
Alcuni dicono che la vista gli sia diminuita del 95%, da un occhio. Altri che la pelle si stia sgretolando e che i polmoni lo stiano mollando. La parte dei miei amici che è dentro certi giri, voi sapete quali, riporta anche un paio di aggiunte: che, per tenersi in forze, il suo tenore alimentare a base di carne umana è leggermente aumentato e che il suo occhio sinistro - per circa venti minuti - ha perso consistenza materiale trasformandosi in un groviglio scomposto di suoni.

Per qualche giorno vivo nella consapevolezza che, per la prima volta nella mia vita, sto ammazzando un uomo. La mia testa è un frullato di sensi di colpa e delirio di onnipotenza, tanto che nemmeno capisco più bene come si distinguono le due sensazioni.
Non so bene come muovermi, cosa fare. Una parte molto umana pensa che sia stato un terribile errore, tutto questo. Un'altra parte, altrettanto umana e molto più stronza, crede invece che - se vale un minimo contrappasso - dovrei perlomeno sciogliermi al sole o esplodere in suolo consacrato.
Un'altra parte ancora, molto irrazionale e scimmiesca, è semplicemente curiosa di sapere come andrà a finire. Credo che sarà questa che, alla fine, seguirò. Come al solito.

Credo però, anche, che tenermi tutto dentro partorirà i peggiori danni possibili. E la mia rosa di confidenti, in questo genere di cose, è tutt'altro che illimitata.

Finisce che siamo io e Regina, sul balcone di casa sua, con il computer acceso alle nostre spalle, in cucina. Winamp non parte più da solo, suonando a tradimento i Joy Division. Lei però fa una smorfia divertita e lancia comunque Love will tear us apart.
E' passato un mucchio di tempo da quando ci siamo visti l'ultima volta. Quella in cui l'ho baciata. Giorni in cui non ci siamo sentiti e abbiamo coltivato il rovo d'imbarazzo che adesso ci unisce e ci punge.

Sapete? Riflettevo su come quello, per certi versi, sia stato il peggior bacio in cui potessi esibirmi. Fragile, veloce, nervoso. Se considerate che non passo le mie giornate a baciare la gente, potreste concedermi che meritavo di più.
E più ci penso, più mi sento incapace di dirle una frase qualunque, di iniziare un qualunque discorso. Mi limito a vivere la maledizione delle persone che sentiamo più distanti: vederne la bellezza come mai non poteva capitarci prima. Le piccole cose, le mani che si stringono alle braccia per cacciare il freddo, il fiato caldo che soffia via dalle labbra, come fumo di sigaretta. Gli occhi che si aprono sulla pelle scura, abbracciando il buio.
E' imbarazzata quanto me. C'è da chiedersi perché io abbia cercato proprio lei, e perchè lei abbia accettato di vedermi.

"Cercherai ancora Von Beck?", mi chiede dopo un po'.
"Per l'importanza che può avere. Mi sembra che l'idea di uccidere Michael Jackson sia un po' sfuggita al mio controllo"
"Hanno smentito, lo leggevo oggi. Pare stia benissimo"
"E tu ci credi?"

Si stringe nelle spalle. "Non so. Forse gli sta succedendo una versione più violenta di quanto è successo a te. Sta cambiando. Un cambiamento drastico e doloroso... se è così, giurerei che sa benissimo che qualcuno vuole ucciderlo. Forse non sa che sei tu, ma cosa vuoi fare sì. Il cambio di nome, la trasformazione... non si spiegherebbero, altrimenti"
Annuisco, senza dire nulla. Solo un sorso alla tazza di caffè solubile che mi sono portato fuori.
"Hai paura?", mi chiede poi, con uno strano senso di apprensione.
"Ho paura che tu non abbia ragione. Ho paura che..."
"... che certe cose funzionino?", mi anticipa lei.

Annuisco di nuovo. "Però è perchè funzionino certe cose, che le faccio"
"Capisco fin troppo bene, credimi", risponde lei, soffiandomi - per la prima volta nella serata - un sorriso sulla guancia.

Ci guardiamo. E' ridicolo pensare che ci stiamo guardando davvero negli occhi solo adesso, dall'inizio della serata. Forse è proprio questo senso del ridicolo a mangiarsi la distanza tra noi.
Ci sorridiamo a vicenda, in sincrono mandiamo giù un altro sorso di caffé e stavolta il sorriso tintinna in una risata vera e propria.
Restiamo in silenzio e ce lo godiamo per bene, tornando a fissarci ogni tanto e rimanendo in apnea da parole.

"Pensavo a una mia amica".
"Chi?", mi chiede Regina.
"Aspetta, te la racconto per bene. Devi sapere che c'è stata un'estate in cui ho lavorato in un mercatino di beneficenza. Era gestito da francescani, ci facevano spostare mobili e televisioni da una parte all'altra del cortile del loro convento"
"Ti offendi se ti dico che non mi dai l'impressione della persona abituata a faticare?"
"No, hai ragione. Infatti per onorare i bravi fratelli mi ubriacavo di brutto prima di cominciare a lavorare, in modo che la sbronza smaltisse un po' la fatica".
Regina scuote la testa, rassegnata. "Vai avanti".
"Beh... eravamo un mucchio di esterni a lavorare e, in questo mucchio, c'era Giulia. Sembrava il classico tipo irlandese: sai, capelli un po' mossi, rossicci, lentiggini e un po' pallida. Qualche anno in più di me, cosa che di solito mi attizza parecchio"

"Ma guarda", commenta Regina, entrando per un attimo a riempire altre due tazze di caffé.
Scotta, quando mi porge la mia. C'è anche un momento in cui mi chiedo se non avrebbe più senso chiacchierare dentro casa. Fuori nevica, però, e la neve la vince su tutto, quando la vedi contro la luce dei lampioni. E quando una tua amica, accanto, sporge le braccia per catturarne un fiocco.
"Continua", mi dice Regina. Continuo.

"Beh, Giulia disegnava fumetti. Diceva di passare ore, a farlo. Io non ho mai visto nulla di suo, ma non avevo il minimo dubbio che fosse una dea della matita. Non so nemmeno io spiegarti perché. Ci sono quelle persone che parlano delle proprie passioni come di amanti a cui devolvere tutto. E solo in virtù di questo, non oseresti mai dubitare che siano dei maestri"
"Ho presente il tipo", annuisce lei, col sorriso che le si allarga, quando riesce finalmente a prendere un fiocco di neve.

"All'epoca disegnavo anche io. Cioè, copiavo malissimo dei gran primi piani, e a culo l'anatomia. Era il periodo in cui leggevo albetti di Sandman, Hellblazer e Devilman in maniera compulsiva. Come puoi immaginare, fu coi fumetti che attaccammo bottone io e Giulia. Non ricordo chi cominciò. Parlavamo di storie a cui eravamo appassionati, di personaggi. Lei ascoltava con la massima attenzione, dava sempre l'impressione di considerare ogni cosa piena d'interesse, sia che la conoscesse già o no. Fa ridere pensare che, ora come ora, non ricordi affatto cosa piacesse a lei.
"Voi due sareste andati d'accordo, credo. Prendeva spesso l'autobus, e odiava la gente che se ne stava zitta e aggrappata al sedile. Giuro, non me lo sto inventando: una volta non ce la fece più. Dopo i primi minuti di viaggio, si alzò in piedi e cominciò a chiedere a tutti quale fosse il loro film di Chaplin preferito"

"Hai ragione... mi sarebbe piaciuta parecchio", ridacchia Regina, sorridendomi da dietro l'orlo della tazza di caffé.
"Ero... non so se mi fossi preso una cotta. A volte, credo di essere più innamorato adesso che ne parlo, che allora. Allora la consideravo nè un'amica nè una possibilità, ma tutte e due queste cose insieme. Qualcuno che hai ritrovato, ecco. Anche se le nostre ore passate insieme erano solo quelle del lavoro e le nostre chiacchiere solo quelle sui fumetti.
"Beh, l'estate finì. Ci perdemmo di vista, com'era un po' da copione. Da qui in poi, non so bene cosa le successe, perchè tutte le cose che conosco da qui in poi, vengono da racconti che ho sentito in giro.
"Dissero che era andata giù di testa. All'inizio, era convinta di vedere gli angeli. Di sentirne le voci.
"Io penso che le avrei creduto anche allora. Del resto, ho creduto a P.K. Dick quando affermava di vedere la Luce Rosa, o ad Artaud quando scriveva che intere zone del traffico di Parigi venivano bloccate, per permettere ai suoi nemici di maledirlo a distanza. Ho creduto a un sacco di gente morta prima di me... perché non avrei dovuto dar credito a Giulia? Ma, ovviamente, non ero lì con lei"

Regina mi si fa un po' più vicina. "E quelli che le stavano accanto, le hanno creduto?"
"No. Beh, ammetto che ci sarebbe voluta una mente un po' aperta. Ritrattò sugli angeli e disse di essere posseduta dal diavolo. Poi, di nuovo, prese in ballo gli angeli e disse che erano loro, a invasarla. Alla fine mise tutti d'accordo e saltò fuori con la storia che era posseduta dalle fate. I medici la imbottirono di psicofarmaci e si tolsero il pensiero. E lei non riuscì più a farne a meno.
"Non l'ho mai più vista. Ci fu una volta, in cui le scrissi che le volevo molto bene, per quel poco che ci si era conosciuti. Che poteva contare su di me per qualunque cosa. Non mi rispose mai"

Regina resta in silenzio, a sorseggiare il caffé. E' vicina adesso, vicinissima.
"Non fraintendermi. Non te l'ho detto perché ho paura che anche noi finiremo così, o che..."
"... ma solo perché a volte pensi che bastava poco, forse incontrarsi adesso e non prima, perchè la sua storia finisse bene. E, altre volte ancora, hai paura che essere felici sia una questione di mani giuste al momento giusto"
"Sì", le dico. E non riesco a dire altro, perchè qualcosa mi strozza la voce prima che riesca ad andare avanti.

Regina mi abbraccia, mi tiene stretto e io mi aggrappo a lei. Sento il suo respiro sul collo, la stringo più forte. Lei stringe più forte me.

Ci stacchiamo solo quando ci rendiamo conto che la mia tazza di caffé è volata giù dal balcone.