venerdì 26 giugno 2009

???

Considerata l'inaspettata piega degli eventi, la continuazione (o un nuovo inizio, a seconda dei punti di vista) è qui:

http://www.ende-neue.blogspot.com/

Ichnuz, usa la mia mail!

giovedì 30 aprile 2009

Capitolo venticinque: Varaqalacahapasabatana

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E no.
Le cose o le cancelli, o le conservi.
Tertium non datur.
Se questo è quello che vuoi fare, formatta la chiavetta. Formatta l'hard disk.
Non lasciare traccia di quello che dici di "voler" cancellare.
O conservalo, ma sii sincero con te stesso.

"Hanuman, sei un idiota", mi sussurro.


Ho una paura fottuta. Rigiro quella chiavetta tra le dita, nella tasca, e ripenso alla faccia di Regina mentre mi fissa, occhi lucidi e labbra contratte.
Nei miei ricordi, suona al campanello di casa mia e - quando la faccio salire - mi tira uno schiaffo potente come benvenuto.


"Cosa pensi di fare? - mi chiede - COSA CAZZO PENSI DI FARE?"
Restiamo a guardarci a lungo.
"Regina... sei tu che mi hai introdotto a tutto questo. E in quel garage, quando c'è stata quella specie di iniziazione, ho visto come ti guardavano. Non sei una specie di capo, o una roba del genere?"
"E questo cosa vorrebbe dire?"
"Non lo so, dimmelo tu. Perché hai così paura?"


Stringe gli occhi. Da come mi guarda, ho l'impressione che debba sputarmi in faccia da un momento all'altro.


"Da quanto non vedi gli amici che avevi prima di tutto questo? O i tuoi genitori?"
"Questo che c'entra?"
Quando si avvicina, a due centimetri dalla mia faccia, la mia prima reazione è quella di fare un passo indietro. Mi artiglia una spalla, tenendomi fermo.
"Piccolo idiota... un narratore domina le sue storie, non diventa una storia"
"Sì, ma..."
"Ma un cazzo... ascoltami bene. Tutte le volte che racconti una storia, metti dei paletti. Uccidi qualcuno o qualcosa per far sì che nasca qualcos'altro. Quando Dio ha raccontato il mondo, ha ucciso milioni di dinosauri per poter narrare gli esseri umani. Tu stai distruggendo un mucchio di cose e non ne sei nemmeno lontanamente consapevole"

Mi parla addosso, ora. Gli occhi, i suoi bellissimi occhi cerchiati di nero, si piantano sui miei.


"Regina, non sono io che decido delle sorti del mondo. Se davvero io avessi la capacità di cambiare il mondo raccontando, quella capacità l'avresti anche tu..."
"Questo è quanto pensavo anche io..."
"... insomma, cos'è? Tanti bei discorsi? E mi fai vedere il Rituale di Babele, gli Agenti, mi blandisci con una partita a scacchi e poi? Appena mi spingo appena più in là, vieni a dirmi di smettere? Ma sai che c'è chi dice che nemmeno mi ci spingo abbastanza, in là?"
"..."
"Cosa dovrei fare? Annegarmi di tante pippe teoriche e vedere TUTTO che va avanti come prima? Ma non eri tu che...?"
"PIANTALA! Ma non ti rendi conto che le cose sono cambiate? Che potevano essere gestibili, finché non hai cominciato a cambiare pezzi di racconto? Io... io ti amo, Hanuman. Ma come faccio a sapere, adesso, se ti amo davvero o se non sei tu ad aver scritto questa frase per me? Come faccio a sapere di essere viva e non un personaggio del tuo racconto?"
"... e come faccio a sapere che per me non è lo stesso, Regina? Che non sei stata tu a inventare me?"


Le nostre mani si cercano, le mie dita provano a domare la rigidità delle sue. La vedo deglutire, spaventata, un groppo di paura che scende giù per la sua gola scura, gli occhi che non smettono mai di stare fermi sui miei. Senza mai abbassare lo sguardo, senza mai distoglierlo.
La stringo. Anche lei mi stringe forte, ci aggrappiamo l'un l'altro. Perché, davvero, in questo momento, in questa casa che mi rendo conto solo adesso di quanto sembri vuota, riesco a sentire tutto il peso delle sue parole, di quello che mi ha detto.
E per quanto né io né lei, forse, siamo davvero reali, al momento è la persona più vera che ho vicino.


"Andrai avanti, vero?", mi sussurra all'orecchio.
"Non posso farci niente. E' da quando mi ha spaventato a morte con Thriller, che voglio uccidere Michael Jackson"
Sento le spalle sussultare in una risata silenziosa.
Poi realizzo per bene una cosa che ha detto. Una cosa che non è proprio un dettaglio, insomma.
"Cacchio... ma davvero mi hai appena detto che mi ami?"
Rimane per un po' in silenzio. "Non sarebbe male se ci fossimo immaginati a vicenda", mormora poi.
"No. Non sarebbe male per niente"


Poi sento il suo corpo allontanarsi, le mani che scivolano sulle spalle e le stringono, come un contentino. E, di nuovo, è davanti a me, faccia a faccia.


"Hai detto che il nome che KDigger ti ha dato come fine della tua ricerca è Mad Molly, vero?"
"Sì... non so dove trovarla, però".

"Io sì"

Non riesco a capire, adesso, se mi stia guardando con aria di sfida o con preoccupazione. Perché tutto quello che penso di capire, a proposito dei suoi sguardi, si sfalda nel giro di un suo modo di inclinare la testa. Come al solito. O nell'intaglio roco della sua voce.
"Esistono degli Eggregori molto potenti, Hanuman. E sono a portata di mano. Possono rispondere a ogni tua domanda, ma vogliono sempre qualcosa in cambio"
"Qualcosa come...?"
"Qualcosa di molto prezioso. Ed è bene che tu vada lì con un prezzo davvero convincente, se vuoi interrogarle"

"Ah. E che cazzo".
Davvero, mi sembra perfino una risposta intelligente.

Regina, che continua a fissarmi dimenticandosi di sbattere gli occhi, mi bacia sulle labbra. Si ritrae. Poi, sulla mia bocca, sussurra:

"Se vuoi, posso portarti da loro. Posso portarti dalle Tre Sorelle"
"Ma a quel punto..."
"Esatto, Hanuman", conclude lei, senza aver bisogno che finisca di parlare.

E quella chiavetta, quella in cui ho salvato la mia vita prima di modificarla e prima di giocarci a farne un topo da laboratorio, è pesante, fin troppo pesante nella tasca dei jeans.

martedì 31 marzo 2009

Capitolo ventiquattro bis. Vagalasacaradamanataqa

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Come tutte le cose davvero importanti, la faccio senza la minima aura di solennità, in una mattinata più grigia del solito, ascoltando un cd di Petra Magoni.

Ho passato la notte, però, a pensarci su.

Ne modifico tre e ne tolgo uno. Che poi, non è che lo cancelli. Lo salvo, lo metto su una chiavetta e lo faccio sparire dal blog. Dal capitolo quindici al diciotto, il mio universo cambia. E proprio adesso, che ho appena finito di farlo, la percezione di aver manipolato quella parte di storia si fa sempre più labile. Fatico a ricordarmi quali punti ho modificato. E in che modo.
La versione precedente diventa un sogno difficile da afferrare.
Il discorso che mi fa Eco appena tornato dalla visita ai Poeti Estinti mi appare fin troppo sensato. Ma mi ha sempre detto quelle cose? O sono stato io a fargliele dire?

E io?

Capitolo ventiquattro. Vagalasacaradamanata

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"Non vuoi farlo davvero", mi dice Regina.

E' terrorizzata. Terrorizzata come non l'ho mai vista, con gli occhi grandi e scuri che mi guardano, che cercano con insistenza i miei. Li mettono a prova... mi mettono alla prova.
"Devo farlo, Regina. Non so che altro inventarmi"
"Questa non è nemmeno lontanamente un'opzione!". Alza la voce. Dubito fosse nelle sue intenzioni, farlo. La riabbassa subito. Sbuffa ed evita di incrociare ancora il mio sguardo.
"Perchè hai così paura?"

Un sorriso sarcastico le si disegna sul volto. Muore subito, quel sorriso, il cadavere è la linea indurita delle sue labbra. Non risponde.

Sono quasi due mesi che cerco di trovare un senso a quello che mi ha detto la... la persona? che ho incontrato alla proiezione di Metropolis.
"Dammi la tua vita - ha detto - Distruggi un pezzo della tua vita"
Lo ammetto, non c'ho pensato molto. Non subito, almeno. Ho girato in lungo e in largo per Bologna, mani in tasca, faccia rimuginante, a pensare e pensare e pensare. Ho creduto potesse trattarsi di scrivere, come al solito. Scrivere un racconto, qualcosa di vecchio che mi riguardasse e darlo... darlo a chi?
Ho scritto un mucchio. Ho scritto vecchi ricordi dell'asilo, ho scritto della prima persona di cui mi sono innamorato, del mio primo racconto, di un sogno che ho fatto.
Mi sono ritrovato a spulciare qualunque cosa potesse esserci di significativo, nella mia esistenza. E' buffo, scontato: a volte nulla, a volte invece avevo l'imbarazzo della scelta. Qualunque cosa d'importante ci fosse, l'ho bruciato.

... e non è successo nulla.

Mi sono ubriacato come un idiota. Ho bruciato un po' di ricordi su una bottiglia di grappa ché, del resto, pure questo è un punto di partenza per distruggersi almeno un po'. Nulla, ovviamente. Del resto, non è che avessi affrontato questo approccio con troppa convinzione.

La mia ricerca non è andata avanti di una virgola. Ho anche pensato di mollare più volte. L'ho fatto. Mi sono detto beh, dopotutto chi se ne frega, e per un bel po' ho badato agli affari miei, che non erano quelli di Von Beck o di Michael Jackson.
Finché, qualche giorno fa, non l'ho visto, il Re del Pop. Eravamo io e Regina, davanti alla tv, involtini primavera e riso alla cantonese sul tavolo davanti a noi.

Michael Jackson rispondeva alle domande di una conferenza stampa. Ha alzato il braccio per salutare e, quando lo ha fatto, il commento alla tv sottolineava già qualcosa che noi due avevamo notato appena una frazione di secondo prima.

"Cazzo", ho detto io.
"Si sta trasformando. Merda, Hanuman, ha cominciato a trasformarsi"

Ha alzato la mano e tutti ci siamo accorti del suo polso artificiale. Molto più grosso rispetto al braccio, uno grumo di carne e osso spuntato fuori, non invitato, su quel corpo. Un gnocco quadrato, cazzo, perfettamente quadrato. Il polso di un Master of the Universe montato su una Barbie.
Ci siamo raggelati. Un boccone di riso e uno di terrore sacro, mentre Jacko sventolava il suo braccio finto sotto il nostro naso, a centinaia di telecamere di distanza.

"Vuole che lo guardiamo. Lo terrebbe nascosto, sennò, lo ha sempre fatto", ha detto Regina.
"Calma... calma. Voglio dire, pensiamoci un attimo"
"Non c'è nulla da pensare. Si sta trasformando"

Un paio di giorni dopo, sono qui che scrivo e spulcio foto di quella conferenza stampa. C'è un ingrandimento che ti fa vedere come sul suo polso si vedano delle linee, quasi delle giunture. Anche la pelle è liscia quanto un blocco di plastica. Alle 3 e 30 del mattino, mi spavento guardando il braccio di Big Jim in primo piano.
E così, ho ricominciato a pensarci. E ancora e ancora e ancora. Perchè ho come l'impressione che maledire Michael Jackson ed eliminarlo in tempo, sia diventata una questione di vita o di morte.

Distruggi un pezzo della tua vita.
E' stato a quel punto, che mi è venuta in mente questa idea.
Distruggi un pezzo della tua vita.

E se alterassi o cancellassi alcuni post di questo blog?

"Perchè quello che sono, quello che è Hanuman, è tutto in questo blog. Se io scrivo che sto parlando con te adesso, per chi legge, quella cosa è comunque vera. Che sia successa o no. Ma se io la cancello, allora viceversa non esiste più, non è mai accaduta. O è stata corretta, modificata. Non sarà mai più reale come lo era prima", spiego a Regina.
"E se crei un cortocircuito? Se ci rimani incastrato dentro, in tutto questo? Insomma, ti rendi conto che anche tu potresti diventare meno reale?"
"Beh... oddio, non credo ci sia questo rischio. Insomma, mica voglio cancellare tutto e poi... e poi senti, non sarò la prima o l'unica persona che cambia un post, lo cancella, lo..."

Di nuovo, Regina mi guarda fisso negli occhi.
"Regina, di che hai paura?", le chiedo ancora.
"Io ho dei ricordi, con te. Chi ci sarà, nei miei ricordi? Hanuman prima o dopo l'editing della sua vita? E quei ricordi varranno ancora qualcosa?"
"Te l'ho detto, non sono l'unico che..."
"Hanuman, non prendermi per una stupida. Sai quanto me che è diverso"

Sbuffa. Mi ricorda Eco, una delle ultime volte in cui ho parlato con lui e mi diceva che ero incosciente e... cos'altro? pericoloso, sì. Pericoloso.
Eppure, per un momento, mi scuote il dubbio che non mi abbia sempre fatto questo discorso. Che questo discorso sia qualcosa che gli faccio dire io, in una revisione del capitolo in cui discutiamo insieme.
Merda.

Quello che mi spaventa davvero è l'aria esaltata nel mio sguardo, che va di pari passo con quello preoccupata di Regina.
"Quattro capitoli. Due li cavo. Due li correggo. Solo due"
"Ho paura di te, Hanuman", sussurra Regina.

martedì 3 febbraio 2009

Capitolo ventitré: Mapataranasalavaqadacaba

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L'Ubermaschinenmensch Hel apre i suoi occhi al mondo, in un trono illuminato da un pentacolo di neon.
Mi guarda. Il peso del suo sguardo, al di là dello schermo, mi schiaccia e mi rimpicciolisce ancor di più, nella mia sedia da picnic, al buio.
Non riesco nemmeno a capire se siamo pochi o tanti, in questa proiezione pomeridiana di Metropolis. La sala è abbastanza piccola da sembrare piena. Allo stesso, proprio le sue minute file di seggiole di plastica, a cui sono inchiodati cinefili che non addenterebbero un pop-corn nemmeno per errore, fanno assomigliare il tutto a un'esperienza per pochi intimi.
Intendiamoci, non è il Metropolis a cui siete abituati. E' quello di Moroder, colori seppia per musica Anni Ottanta. Tamarro, lo definiremmo da queste parti, senza nemmeno volerlo vedere troppo come un difetto.

Quando i contorni del sogno con Oneiros sono iniziati a sbiadire, il disegno della donna di ferro è rimasta l'unica cosa ferma nella mia memoria, insieme alle parole buttate giù di fretta un capitolo fa.
E quando ho letto della proiezione di Metropolis, in un centro sociale dei dintorni, mi è sembrato l'unico modo possibile per avere un qualche contatto con una vergine robot.
Mai stato un tipo dai simbolismi troppo raffinati, io.

Non so nemmeno perché l'abbiano messo in rassegna. Una spiegazione c'è: solo un anno fa, si sono fatte un bel po' di proiezioni in giro, per il ritrovamento di non so quanti metri di pellicola inedita. Forse, qui sono semplicemente arrivati un po' tardi a cavalcare l'onda.
Altra spiegazione: una proiezione c'é perchè la trama che sto creando prevedeva ci fosse. Ragionevole.

Ha i sottotitoli in spagnolo. E' esattamente la stessa versione che mi sono scaricato anche io da internet.
Così, mentre il volto di Hel si sovrappone a quello dell'innocente Maria, generando una donna dallo sguardo molto più obliquo e stregato, qualcuno mi sussurra una frase all'orecchio, dalla sedia appena dietro di me.

"Non voltarti. Ascoltami e basta. So chi sei e cosa vuoi fare"
Rimango un po' in silenzio. Annuisco. Intanto, davanti a me, il dottor Rotwang - lo scienziato che ha creato la donna robot - leva la sua mano finta ad artigliare l'aria in un gesto di trionfo.
"Adesso ti racconto due cose. Tu zitto e ascolta".
La voce sembra quasi far rotolare le parole in un unico, musicale, sussurro rauco. Sembra quella di un ragazzino, nonostante tutto.
"Tu hai già conosciuto gli Agenti della Coerenza, vero? Sì vero, vero. Non c'è bisogno che annuisci. Odio la gente che annuisce.
"Allora ti dico questo. Una volta c'era un gruppo di Narratori Criminali. Furono i primi a inventare l'uso di sacri nickname con cui battezzarsi dopo il Rito di Babele. Non era solo per una questione di sicurezza, dicevano. Era un modo di dimostrare che le nostre identità non sono importanti: che è importante quello che narriamo e non quello che siamo.
"Per questo, al posto dei nomi, si battezzarono con delle cifre"

Hel, nella sua nuova versione Maria-Prostituta-di-Babilonia balla tette al vento nel Quartiere Yoshiwara. Per un momento, mentre sono ancora concentrato a sentire il racconto dietro di me, nutro l'irrazionale speranza che voglia tentare, distruggere, proprio me. Invece no, ovviamente. Ha già un suo pubblico, dentro il film.

Here She Comes, durante le sue prodezze tra occhi luccicanti e draghi finti a sette teste.

"Non era finita - prosegue la voce - Ci insegnarono che le cose cambiano. Cambiano le storie, cambia chi le racconta. Ridevano dei Narratori che erano venuti prima di loro, del loro essere così legati alla propria personalità, al ruolo e alle parole. Ci dicevano di essere guerriglieri, rivoluzionari e terroristi del sostantivo. Ci incoraggiavano a scambiare i nostri nomi, a essere una strana e indistinta potenza fatta di tutti-e-nessuno.
"Ci piaceva. Essere nessuno, ci faceva sentire qualcuno.
"Beh, non è detto che le cose debbano cambiare in meglio. Da noi peggiorarono in modo sottile, così sottile da non darci il tempo di accorgercene.
"Lentamente, li vedemmo parlare sempre più spesso accavallati l'uno all'altro. Quando uno iniziava una frase, l'altro la continuava, un altro ancora la terminava. Era fastidioso. Doveva essere fastidioso anche per loro, perché le frasi che pronunciavano iniziarono a farsi un po' più semplici.
"Questo è giusto. Questo non è giusto. Va bene. Non va bene. La cadenza era monotona e incolore. Come quella dei frati nei conventi. Le facce, sempre più bianche e sottili. Nel giro della settimana, sembrava già che qualcuno avesse dato una strisciata di gomma sui loro volti, pasticciandone i connotati. Nel giro di un mese, le facce erano diventate completamente bianche.

"Ovvio, ci preoccupammo. Tentammo di chiamarli per nome. Di farli tornare in sé. Addirittura, di far loro del male. Nulla. In un tentativo disperato, provammo a dividerli, sequestrandone uno.
"Si divincolava come un ossesso. Scalciava da tutte le parti e continuava a strillare: non sono una persona! non sono una persona, sono un numero!
"Sai cosa fanno adesso? Aiutano nei rastrellamenti contro di noi. Sono entrati dall'Altra Parte. Sono diventati Agenti della Coerenza"

Aspetto un po'. Faccio un lungo respiro, mentre Metropolis viene devastata da un'inondazione in cui la gente affoga a tempo di Love Kills.
"Perchè mi stai raccontando questo?"
La voce alita una risata al mio orecchio.
"Perchè è colpa nostra, se si sono ridotti così. Li abbiamo resi i nostri maestri, i nostri vecchi amici saggi. Stronzate. Non vedevamo la verità."
"E qual'è la verità?"
"Che TUTTI noi diventiamo Agenti della Coerenza via via che andiamo avanti. Tutti noi Narratori. Quanto più la nostra voce arriva in alto, quanto più c'è gente che ci ascolta e crede in quello che facciamo, tanto più la tentazione di passare all'Altra Parte diventa insostenibile.
"Dovevamo eliminarli per tempo. Dovremmo eliminare te. Dovremmo gettarci tutti sotto un treno.
"Sai qual'è l'unico imperativo morale che ci spetta? FARE. TUTTO. IL. MALE. POSSIBILE"

"L'idea mi piace. Ma non stai tentando di insegnarmi anche tu qualcosa, adesso?"
La voce dietro di me fa una risata che scivola in un suono rauco, proprio come la sua voce. Qualcosa mi punge la schiena e scende giù, vertebra per vertebra. Un'unghia molto lunga, mi verrebbe da dire.

Poi, la voce sussurra una parola al mio orecchio.
La parola che è la prossima tappa.

mercoledì 21 gennaio 2009

Capitolo ventidue: Lamadazanacatavarafa

by Vespero

Due nomi, mi scrive KDigger.
Oneiros. Mad Molly. Questo è il tragitto per trovare Von Beck.

"Inizio e fine del viaggio, il resto te la sbrighi da solo :)", recita il foglio di carta in cui sono scritti, e che avvolge un mattoncino nero, dei LEGO.

Regina mi insegna come fanno i Narratori Criminali a trovare qualcuno o qualcosa. Come al solito, tutto si gioca sulle storie. E' di una banalità disarmante: se non sai dov'è ciò che stai cercando, te lo inventi. Basta avere un inizio e una fine della storia.
Così prendo un foglio e scrivo.

Immagino un ragazzo narcolettico. Dorme qualcosa come venti, ventun'ore al giorno e scivola nei sogni altrui. E' quel tizio in ombra che guidava la macchina, quando scappavate dal dinosauro. Quella voce non troppo familiare alle vostre spalle, poco prima che l'onda si abbatta sulla città, a mormorare che succederà tra poco tempo. Quello con cui siete andati a spiare gli alieni-ombra nell'orto e che, siete sicuri, non avevate mai visto prima di sognarlo.

Scrivo su di lui e, che esista o meno, sono sicuro che lo incontrerò nei deserti caotici della fase REM. Scrivo finchè non ho gli occhi ingozzati di sonno, gonfi e pieni di errori di battitura e ripetizioni non corrette.

Così, senza accorgermene, scivolo in una cabina telefonica e mi accorgo di essere in ritardo. In ritardo per avvisare che torno tardi, che non riuscirò a sbrigarmi, che era già ora quando mi sono ricordato di guardare l'orologio.
Sto telefonando contemporaneamente a Regina, ai miei genitori, a un vecchio amico di cui ho dimenticato la voce (e che comunque, tanto, non parlerà nemmeno ora). Butto i gettoni nella fessura. Poi non ricordo il numero. Poi lo ricordo e non riesco a digitarlo. Faccio sempre uno sbaglio. Riaggancio, riprendo in mano la cornetta. Provo a digitare di nuovo e butto un pugno sul telefono. I gettoni non scendono giù. Chissà se ne ho altri?
Cinque secondi dopo sono già alla libreria, la solita. Quella che sta contemporaneamente in mezzo al campo di grano e nel sottopassaggio di Bologna, di fianco a un labirinto di vetrine poco importanti. Non so nemmeno se sono riuscito a telefonare. In via teorica dovrei avercela fatta, visto che l'appuntamento era qui.
Rovisto in mezzo ai modellini di Mazinga sullo scaffale. Al solito, non so se rimanere deluso o meno: come tutte le volte, per quanto questa sia LA libreria, quella che contiene tutte le storie e i personaggi del mondo, non c'è mai quello che vorrei. O costa troppo. Per qualche strana ragione, esco quasi sempre a mani vuote, da qui.
C'è stata una sola eccezione, credo. Una volta ma, mentre uscivo, mi rendevo già conto che l'unico modo per godermi tutto quello che mi ero preso, era dormire per sempre.

Oneiros è di fianco a me. Non riesco a metterlo bene a fuoco, è come se rimanesse sempre ai margini della percezione. Qualcosa di familiare, però, ce l'ha. Non so bene che cosa.
"Abbiamo dato la caccia a un cervo gigante, quando eravamo piccoli", mi spiega lui.
Sì, annuisco. Sì, dev'essere quello.
Vicino a lui due strani tizi, un uomo e una donna.
Lei è vestita come un'infermiera. Ha i guanti di lattice, neri, che le arrivano fino ai gomiti. Anche il grembiule è in lattice nero. Anche la mascherina che le copre il volto, e che fa intravedere solo due luminosi occhi da gatta, con la pupilla verticale.
Fa un inchino da attrice sul palco, tenendosi entrambi i lembi del vestito.
"Ci conosciamo già - mi dice lei - Io sono quella che ti ha cucito il braccio vecch... nuovo". Fa una risatina, con una voce improvvisamente maschile.
L'altro ha una maschera, di quelle veneziane. Non riesco a capire bene il resto, è come se l'occhio lo escludesse, a parte un colore bianco, vagamente elettrico. Mi fa un sorriso pieno di denti acuminati.
"Io sono quello che si è mangiato il vecchio". Fa una risatina, con una voce improvvisamente femminile.
Faccio un saluto. Riesco a essere spaventato e a non esserlo, allo stesso tempo. E' una sensazione strana, mi fa sentire in qualche misura... fico. Ecco sì. Dannatamente fico.

"Sto cercando Von Beck", dico a Oneiros.
Oneiros annuisce. "Anche lui ti sta cercando. Sai cosa significa Ende Neue?"
"E' una canzone degli Einsturzende Neubauten, mi pare"
"Quella è Ende Neu - risponde lui, scuotendo la testa - Tieni, questa l'ho disegnata per te"

Prendo il foglio che mi sta porgendo: l'infermiera pazza e la maschera di Carnevale hanno sorrisi lunghi e l'aria di chi potrebbe leccarmi il braccio a tradimento.
Sul foglio è disegnata una donna di metallo.
"Cos'è?"
"Decidilo tu. Inventatelo. Quel che viene fuori è la tua prossima tappa", risponde Oneiros. O forse la donna con gli occhi di gatto. O forse quello in bianco elettrico. Non so.
Ho la fronte un po' increspata, quando torno a guardarlo. "Grazie", dico.
"Grazie un cazzo - sghignazza l'arlecchino bianco - Ti credevi che era gratis?"
Oneiros si stringe nelle spalle, come a dire mica le faccio io le regole. L'infermiera pazza se la ride, portandosi con garbo una mano alla bocca, nascosta dalla mascherina.

"E' tempo di cambiare armi!", dice l'arlecchino, puntandomi alla testa due dita a mo' di pistola.

BANG!, e mi centra in testa, proprio in mezzo, sulla fronte.
"Ajna Chakra!", dice, mentre i miei pensieri colano fuori dal buco che mi ha fatto.

giovedì 8 gennaio 2009

Capitolo ventuno: Pazaramalafatadanagabacasa

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Un commento sullo scorso post mi porta a fare una ricerca in internet, convulsa e molto, molto preoccupata.
Faccio piovere sul mio monitor decine e decine di cartelle di gossip, foto, chiacchiere e ipotesi, cospirazioni e segreti svelati. Un i-ching di indirizzi web lanciati a casaccio. Un susseguirsi di responsi di morte da parte di Google, l'Oracolo del Web.

La risposta è sempre la stessa. Ve la faccio breve: tanto le fonti potete verificarle da soli, su un qualunque motore di ricerca o sul vostro tabloid preferito.
Michael Jackson sta morendo.
Alcuni dicono che la vista gli sia diminuita del 95%, da un occhio. Altri che la pelle si stia sgretolando e che i polmoni lo stiano mollando. La parte dei miei amici che è dentro certi giri, voi sapete quali, riporta anche un paio di aggiunte: che, per tenersi in forze, il suo tenore alimentare a base di carne umana è leggermente aumentato e che il suo occhio sinistro - per circa venti minuti - ha perso consistenza materiale trasformandosi in un groviglio scomposto di suoni.

Per qualche giorno vivo nella consapevolezza che, per la prima volta nella mia vita, sto ammazzando un uomo. La mia testa è un frullato di sensi di colpa e delirio di onnipotenza, tanto che nemmeno capisco più bene come si distinguono le due sensazioni.
Non so bene come muovermi, cosa fare. Una parte molto umana pensa che sia stato un terribile errore, tutto questo. Un'altra parte, altrettanto umana e molto più stronza, crede invece che - se vale un minimo contrappasso - dovrei perlomeno sciogliermi al sole o esplodere in suolo consacrato.
Un'altra parte ancora, molto irrazionale e scimmiesca, è semplicemente curiosa di sapere come andrà a finire. Credo che sarà questa che, alla fine, seguirò. Come al solito.

Credo però, anche, che tenermi tutto dentro partorirà i peggiori danni possibili. E la mia rosa di confidenti, in questo genere di cose, è tutt'altro che illimitata.

Finisce che siamo io e Regina, sul balcone di casa sua, con il computer acceso alle nostre spalle, in cucina. Winamp non parte più da solo, suonando a tradimento i Joy Division. Lei però fa una smorfia divertita e lancia comunque Love will tear us apart.
E' passato un mucchio di tempo da quando ci siamo visti l'ultima volta. Quella in cui l'ho baciata. Giorni in cui non ci siamo sentiti e abbiamo coltivato il rovo d'imbarazzo che adesso ci unisce e ci punge.

Sapete? Riflettevo su come quello, per certi versi, sia stato il peggior bacio in cui potessi esibirmi. Fragile, veloce, nervoso. Se considerate che non passo le mie giornate a baciare la gente, potreste concedermi che meritavo di più.
E più ci penso, più mi sento incapace di dirle una frase qualunque, di iniziare un qualunque discorso. Mi limito a vivere la maledizione delle persone che sentiamo più distanti: vederne la bellezza come mai non poteva capitarci prima. Le piccole cose, le mani che si stringono alle braccia per cacciare il freddo, il fiato caldo che soffia via dalle labbra, come fumo di sigaretta. Gli occhi che si aprono sulla pelle scura, abbracciando il buio.
E' imbarazzata quanto me. C'è da chiedersi perché io abbia cercato proprio lei, e perchè lei abbia accettato di vedermi.

"Cercherai ancora Von Beck?", mi chiede dopo un po'.
"Per l'importanza che può avere. Mi sembra che l'idea di uccidere Michael Jackson sia un po' sfuggita al mio controllo"
"Hanno smentito, lo leggevo oggi. Pare stia benissimo"
"E tu ci credi?"

Si stringe nelle spalle. "Non so. Forse gli sta succedendo una versione più violenta di quanto è successo a te. Sta cambiando. Un cambiamento drastico e doloroso... se è così, giurerei che sa benissimo che qualcuno vuole ucciderlo. Forse non sa che sei tu, ma cosa vuoi fare sì. Il cambio di nome, la trasformazione... non si spiegherebbero, altrimenti"
Annuisco, senza dire nulla. Solo un sorso alla tazza di caffè solubile che mi sono portato fuori.
"Hai paura?", mi chiede poi, con uno strano senso di apprensione.
"Ho paura che tu non abbia ragione. Ho paura che..."
"... che certe cose funzionino?", mi anticipa lei.

Annuisco di nuovo. "Però è perchè funzionino certe cose, che le faccio"
"Capisco fin troppo bene, credimi", risponde lei, soffiandomi - per la prima volta nella serata - un sorriso sulla guancia.

Ci guardiamo. E' ridicolo pensare che ci stiamo guardando davvero negli occhi solo adesso, dall'inizio della serata. Forse è proprio questo senso del ridicolo a mangiarsi la distanza tra noi.
Ci sorridiamo a vicenda, in sincrono mandiamo giù un altro sorso di caffé e stavolta il sorriso tintinna in una risata vera e propria.
Restiamo in silenzio e ce lo godiamo per bene, tornando a fissarci ogni tanto e rimanendo in apnea da parole.

"Pensavo a una mia amica".
"Chi?", mi chiede Regina.
"Aspetta, te la racconto per bene. Devi sapere che c'è stata un'estate in cui ho lavorato in un mercatino di beneficenza. Era gestito da francescani, ci facevano spostare mobili e televisioni da una parte all'altra del cortile del loro convento"
"Ti offendi se ti dico che non mi dai l'impressione della persona abituata a faticare?"
"No, hai ragione. Infatti per onorare i bravi fratelli mi ubriacavo di brutto prima di cominciare a lavorare, in modo che la sbronza smaltisse un po' la fatica".
Regina scuote la testa, rassegnata. "Vai avanti".
"Beh... eravamo un mucchio di esterni a lavorare e, in questo mucchio, c'era Giulia. Sembrava il classico tipo irlandese: sai, capelli un po' mossi, rossicci, lentiggini e un po' pallida. Qualche anno in più di me, cosa che di solito mi attizza parecchio"

"Ma guarda", commenta Regina, entrando per un attimo a riempire altre due tazze di caffé.
Scotta, quando mi porge la mia. C'è anche un momento in cui mi chiedo se non avrebbe più senso chiacchierare dentro casa. Fuori nevica, però, e la neve la vince su tutto, quando la vedi contro la luce dei lampioni. E quando una tua amica, accanto, sporge le braccia per catturarne un fiocco.
"Continua", mi dice Regina. Continuo.

"Beh, Giulia disegnava fumetti. Diceva di passare ore, a farlo. Io non ho mai visto nulla di suo, ma non avevo il minimo dubbio che fosse una dea della matita. Non so nemmeno io spiegarti perché. Ci sono quelle persone che parlano delle proprie passioni come di amanti a cui devolvere tutto. E solo in virtù di questo, non oseresti mai dubitare che siano dei maestri"
"Ho presente il tipo", annuisce lei, col sorriso che le si allarga, quando riesce finalmente a prendere un fiocco di neve.

"All'epoca disegnavo anche io. Cioè, copiavo malissimo dei gran primi piani, e a culo l'anatomia. Era il periodo in cui leggevo albetti di Sandman, Hellblazer e Devilman in maniera compulsiva. Come puoi immaginare, fu coi fumetti che attaccammo bottone io e Giulia. Non ricordo chi cominciò. Parlavamo di storie a cui eravamo appassionati, di personaggi. Lei ascoltava con la massima attenzione, dava sempre l'impressione di considerare ogni cosa piena d'interesse, sia che la conoscesse già o no. Fa ridere pensare che, ora come ora, non ricordi affatto cosa piacesse a lei.
"Voi due sareste andati d'accordo, credo. Prendeva spesso l'autobus, e odiava la gente che se ne stava zitta e aggrappata al sedile. Giuro, non me lo sto inventando: una volta non ce la fece più. Dopo i primi minuti di viaggio, si alzò in piedi e cominciò a chiedere a tutti quale fosse il loro film di Chaplin preferito"

"Hai ragione... mi sarebbe piaciuta parecchio", ridacchia Regina, sorridendomi da dietro l'orlo della tazza di caffé.
"Ero... non so se mi fossi preso una cotta. A volte, credo di essere più innamorato adesso che ne parlo, che allora. Allora la consideravo nè un'amica nè una possibilità, ma tutte e due queste cose insieme. Qualcuno che hai ritrovato, ecco. Anche se le nostre ore passate insieme erano solo quelle del lavoro e le nostre chiacchiere solo quelle sui fumetti.
"Beh, l'estate finì. Ci perdemmo di vista, com'era un po' da copione. Da qui in poi, non so bene cosa le successe, perchè tutte le cose che conosco da qui in poi, vengono da racconti che ho sentito in giro.
"Dissero che era andata giù di testa. All'inizio, era convinta di vedere gli angeli. Di sentirne le voci.
"Io penso che le avrei creduto anche allora. Del resto, ho creduto a P.K. Dick quando affermava di vedere la Luce Rosa, o ad Artaud quando scriveva che intere zone del traffico di Parigi venivano bloccate, per permettere ai suoi nemici di maledirlo a distanza. Ho creduto a un sacco di gente morta prima di me... perché non avrei dovuto dar credito a Giulia? Ma, ovviamente, non ero lì con lei"

Regina mi si fa un po' più vicina. "E quelli che le stavano accanto, le hanno creduto?"
"No. Beh, ammetto che ci sarebbe voluta una mente un po' aperta. Ritrattò sugli angeli e disse di essere posseduta dal diavolo. Poi, di nuovo, prese in ballo gli angeli e disse che erano loro, a invasarla. Alla fine mise tutti d'accordo e saltò fuori con la storia che era posseduta dalle fate. I medici la imbottirono di psicofarmaci e si tolsero il pensiero. E lei non riuscì più a farne a meno.
"Non l'ho mai più vista. Ci fu una volta, in cui le scrissi che le volevo molto bene, per quel poco che ci si era conosciuti. Che poteva contare su di me per qualunque cosa. Non mi rispose mai"

Regina resta in silenzio, a sorseggiare il caffé. E' vicina adesso, vicinissima.
"Non fraintendermi. Non te l'ho detto perché ho paura che anche noi finiremo così, o che..."
"... ma solo perché a volte pensi che bastava poco, forse incontrarsi adesso e non prima, perchè la sua storia finisse bene. E, altre volte ancora, hai paura che essere felici sia una questione di mani giuste al momento giusto"
"Sì", le dico. E non riesco a dire altro, perchè qualcosa mi strozza la voce prima che riesca ad andare avanti.

Regina mi abbraccia, mi tiene stretto e io mi aggrappo a lei. Sento il suo respiro sul collo, la stringo più forte. Lei stringe più forte me.

Ci stacchiamo solo quando ci rendiamo conto che la mia tazza di caffé è volata giù dal balcone.