sabato 20 dicembre 2008

Capitolo venti. Qasatalavaradagacahafanapa

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KDigger l'ho conosciuta dalle parti di Rimini.

Beveva birra ai piedi di un gigantesco idolo metallico, con gli altri della tribù tutt'intorno. Non mi ricordo se, quella sera, nel loro accampamento ci fosse anche un concerto. Poco importava: anche quando, il concerto sarebbe stato una trappola per portarci lì, tra di loro. Davanti al totem.

Non dico che l'idolo fosse la cosa più strana lì in mezzo. Lo spazio su cui camminavamo era una sorta di officina all'aria aperta, tra lamiere abbandonate e altre lamiere trasformate. Camper. Mostri di acciaio. Ducati pieni di altra ferraglia, che non dovesse finire mai. L'indigestione da sense of wonder post-urbano era ovunque girassi gli occhi.
L'idolo, però, aveva un qualcosa di tutto suo.
Noi stranieri, noi gaijin, ne eravamo attratti tanto da fargli cerchio intorno, un cerchio che tutti facevamo ben attenzione a non invadere. Senza nemmeno rendercene conto, gli offrivamo l'unica cosa di cui avesse bisogno: uno spazio sacro.

Era una scultura di... bah, sparando a caso, direi tre, quattro metri. Nei miei ricordi, in realtà è grande e imponente come uno dei boss finali di Doom. Invadeva il cielo, sfidava ogni reticenza a essere adorato. Il muso di metallo levato in alto, il torso e le braccia fatti di lamiere, molle, acciaio saldato, bulloni svitati e riavvitati con cura. Un velo di ruggine a ricordarci che pure gli dei se ne vanno in malora e una pelle di ferro a renderci altrettanto chiaro il concetto che, comunque, lo faranno un po' dopo di noi, ma senza divertirsi a invecchiare.
Il muso lo ricordo grossomodo simile a quello di un toro; non ci giurerei, certo, ma ho una vaga traccia di corna, che cerco ancora di capire come stavano su.

Noi gaijin lo guardavamo con apprensione, perfino io. La tribù invece, che pure credeva nel totem molto più di noi, sembrava parecchio più a suo agio. Sbracata ai suoi piedi, a chiacchierare e bere birra, per restituirci lo sguardo solo ogni tanto.

Era la prima volta che mettevo piede a Mutonia, la piccola città dei Mutoidi.

Visti così, sembravano davvero cattivi usciti da un remake di Mad Max o da un episodio di Hokuto No Ken: non li ricordo nemmeno troppo distinti, più come un incastrarsi di capelli sparati al vento, canotte, maschere da saldatore, piercing e acciaio su acciaio che cercava di restare disperatamente abbracciato alla carne. O, almeno, di non allontanarsene troppo.
Credo fosse una di quelle volte (vi assicuro, si contano molto meno di quanto non potreste immaginare leggendo quello che scrivo) in cui mi sentivo un po' più scimmia che essere umano, e ruppi il cerchio, tirando dritto proprio verso quella ragazza, con gli occhi tenuti nascosti da un cappellino a visiera e i capelli saturi di rosso.
La tribù mi fissava e, adesso, anche i gaijin. Lo sguardo, tradotto in lingue un po' diverse, era la stessa curiosità e compatimento furbo.

Una parte di me aspettava ansiosamente che qualcuno dei Mutoidi prendesse fuori un coltello e, con una risatina da sgherro cattivo, iniziasse a leccarne la lama.
No, ovviamente nessuno sembrava deciso ad accontentarmi in questo senso.

"Come si chiama il dio di ferro?"
La ragazza, adesso, mi stava guardando. "Non ha mica un nome".
"Ah, non prendermi in giro. Che gusto c'è a essere un totem d'acciaio, se nessuno può chiamarti in nessun modo?"
Un piccolo sorriso, sul suo volto. "Sogna Ridendo. E' un truffatore, come Coyote degli indiani o Hanuman degli altri indiani. Uno che ti fa credere di essere tanto grosso, ma che se la gioca tutta sulle parole e le illusioni"
"Ho un po' presente il tipo"
Un breve attimo, poi mi sono trovato la bottiglia di birra davanti, per un sorso. "Senti... non so dove o quando, ma sono sicura di aver già visto la tua faccia in giro. Non è che conosci una tizia che si chiama Regina?"

Così si chiacchiera, si beve e, sì, magari ci siamo già conosciuti, ma nessuno dei due riesce a ricordarsi bene dove.
E, sì, conosce Regina perchè ne condivide gli interessi. Più o meno.

Torno a Mutonia una settimana fa, dopo un po' di tempo. Ci vado solo quando c'è un'occasione per farlo: un concerto, una performance, una festa... non sono tante, quelle che organizzano i Mutoidi. Senza, però, non mi troverei a mio agio; per quanto sia magari più a mio agio di altri, resto pur sempre un gaijin.
Però il Festival dei Teatri di Santarcangelo è lontano e non credo che i Mutoidi si esibiscano da qui a poco tempo.

E, davvero, ho bisogno di una mano da KDigger.

Trovo qualche totem in più e qualche totem in meno: mentre ci aggiriamo tra i camper post-atomici di Mutonia, KDigger mi spiega che in realtà ogni installazione rappresenta sempre lui, Sogna Ridendo, che cambia forma e ci insegna che anche l'acciaio non è così immutabile come si crede. Non lo sa nessuno, aggiunge, è un segreto che adesso conosciamo solo io e lei, neanche gli altri Mutoidi che ci lavorano giorno e notte, a quelle sculture. Visto che la spiegazione mi piace, la tengo per buona.
Sta diventando un po' la mia filosofia di vita, credere a tutto quello che mi fa simpatia.
Anche lei è differente: nuovo cambio di capelli, qualche tatuaggio in più, un piercing sul sopracciglio, che prima non aveva. Non ha nemmeno più il cappellino.

"Così, vuoi veramente uccidere Michael Jackson?", mi chiede.
"Ah-ah"
"Ma c'è un buon motivo per farlo?"
"E c'è un buon motivo per non farlo?"
"Non ti ha fatto niente"
"... si fa chiamare Re del Pop"

Keidì alza le spalle, come per dire mi arrendo.

"Quello che non ho mai capito della gente come te, o come Regina, è questa vostra ostinazione a lavorare con le parole. Santificare le parole. Le parole non sono niente, sono ammassi di suoni che raggrumi per definire le cose. E' come dire che la foto di un posto è più importante del posto - mi dice, mentre mi porta a un tendone particolarmente grande, che è sempre rimasto chiuso a tutto il resto del pubblico da quando vengo qui in visita - Creare cose ti fa sentire parte di un mondo. Saldi, distorci, fondi, cambi. Sbatti contro degli ostacoli fisici. E capisci che è quello che succede anche a te... capisci di avere limiti", prosegue poi.
"Limiti?"
Davanti al tendone, due Mutoidi mangiano spaghetti scotti su piatti di carta. Non dico che sembra stiano facendo la guardia, ma quasi. Si voltano verso di me e, quando vedono che sono con KDigger, i sorrisi diplomatici da scusa-qui-non-puoi-entrare si trasformano in sorrisi veri.
"Begli occhiali!", dice uno, rivolto ai miei occhiali da aviatore anni Trenta.
Ricambio con un cenno della testa.
"Ma i limiti non dovrebbero essere un po' stridenti con l'idea di cambiare?", proseguo con KD.
"Il cazzo. Se hai dei limiti, cambi concretamente. Se hai solo parole, non ti trasformi mai, hai sempre una scappatoia per tornartene indietro. Entra, ti mostro una cosa"

Il tendone, dentro, è freddissimo e vuoto. No, ad abituarsi un po' al buio, ti accorgi che non è vuoto per niente. Centinaia di mattoncini LEGO sono sparsi per terra, buona parte alla rinfusa e altri già incastrati in quella che sembra una base quadrata, così estesa da coprire una bella porzione di pavimento. Le lampade a neon le tolgono ogni possibile forma di chiaroscuro: è così com'é, netta e senza compromessi. A incastrare i pezzi, c'è un ragazzino dalla faccia seria che ha lo stesso cappellino di KD.
"Trovatore, ti presento Hanuman".
Il ragazzino si volta. Quanti anni? Dodici, al massimo. Porta il cappello esattamente come lo portava lei, tenendo gli occhi un po' nascosti.
"Ti chiamano Trovatore perché sei una specie di poeta?", chiedo tanto per attaccare bottone.
"Trovatore perché trovo le cose", mi risponde lui, serissimo, facendomi davvero sentire un coglione.
Cammino intorno alla base quadrata. Tutti neri, i mattoncini, nessuna traccia di colore.
"E' un po' diverso da quello che costruite da queste parti di solito".

Trovatore annuisce. "Quando sarà finita, sarà una Ziggurat. La Ziggurat Nera"
La guardo a lungo. Non sembra rassicurante, per quanto sia fatta di mattoncini LEGO raccattati chissà dove. Anzi, forse proprio per questo motivo. E' qualcosa di asettico e misterico, una sfinge geometrica che da scimmie potrebbe farci evolvere in uomini, ma senza prometterci alcuna gentilezza nel farlo. E' facile dimenticarsi di esser venuti fin qui per farmi dare da KDigger quei due nomi, gente fidata a Castello, che potrebbe portarmi da Von Beck.
E' facile gironzolare attorno a questa piramide post-moderna e vederla come la fine di un viaggio, per quanto non lo sia.

"Come mai volevi mostrarmela?", chiedo a KD.
"Perché così è più facile spiegare quello che volevo dire. Che le parole sono fatte per chi non ha pazienza, ha troppa fretta. Costruire è un'altra faccenda. E' una questione di trovare i mattoncini giusti"
"Per costruire una piramide... una tomba?", mi viene spontaneo dire.
"Una piramide è una tomba. Ma una ziggurat è una scala", mi risponde Trovatore, prima di aggiungere altri mattoncini.

sabato 6 dicembre 2008

Capitolo diciannove. Nataralapasamacadafaga

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Passa più tempo, rispetto alle settimane che mi aveva consigliato Regina. Così, tanto per andarci sul sicuro.

La situazione si stabilizza. Riprendo a immergermi in attività noiose, brutte e deprimenti come può esserlo la vita lontana dai Narratori Criminali.
Riprendo sostanza, in un certo senso. Mi riscopro inadeguato in molte situazioni, impacciato, legato al mio stesso corpo. Il sollievo, che provo per non essere ancora diventato solo ed esclusivamente il personaggio del vostro romanzo preferito, non basta a ricoprire un senso di nausea che si fa ogni giorno più forte. Ogni giorno che passa, divento meno Hanuman e torno sempre più quel ragazzino che si ruppe la spina dorsale parecchi anni fa e che ha paura di fare le cose più stupide.
Non so mica se ne valesse la pena.

Non ho visto Regina, in questo periodo, e neppure Eco. Anche i miei commentatori, quelli rasserenanti e quelli minacciosi, sono stati buoni e tranquilli. Come se fossimo tutti caduti in un dolce letargo diffuso.

Fino a quando Eco non mi ha mandato una mail. Solo un link: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=35291&sez=HOME_PERSONE&ssez=

Michael Jackson si converte all'Islam. Ora si chiama Mikaeel, come uno degli angeli di Allah, recita l'articolo.
Non siamo gli unici a darci nomi altisonanti ;), recita la mail di Eco.

Credete sia sufficiente a farmi mandare al diavolo settimane e settimane di lenta ripresa, prudenza, guarigione e sollievo da tutti i rischi trangugiati troppo in fretta e rimasti sullo stomaco?
Sì, lo é. Il sogghigno da scimmia divarica gli angoli della mia bocca, senza che possa farci niente.
E dieci minuti dopo, in cui cammino su e giù per la mia stanza e per la mia stessa eccitazione, martellato da una strana sensazione di selvaggia libertà, sto già chiamando Eco.

"Cosa ne pensi?", gli chiedo, non appena ricevo il suo pronto? con la stessa aria sorniona che mi sarei aspettato.
"Cosa ne penso... è ovvio che la storia della conversione è una stupidaggine. Il paravento dietro al quale giustificare il suo nuovo nome. Nome di una divinità, Hanuman, proprio come te"

Hanuman... per quanto Regina mi avesse raccomandato, pregato di non farmi chiamare così ancora per qualche tempo, in modo da riassorbire i danni del rituale letterario dei Poeti Estinti, accarezzo il nome con la voce. Piano, con un tono impercettibile. Hanuman... c'è in mezzo tutta la magia della prima volta che l'ho sentito pronunciare da qualcuno.
Mi sento una scimmia da caccia.

"E' chiara la sua strategia, no? - continua Eco- Vuole che la gente lo identifichi con Mikaeel esattamente come i pochi che ti conoscono ti identificano con Hanuman. E' una forma di difesa. State compiendo lo stesso percorso"
"Con la differenza che lui è un eggregore... è già una divinità immaginaria, mentre io sono un essere umano"
Eco resta per qualche momento in silenzio. Quando riprende a parlare, la sua voce è divertita e insidiosa al tempo stesso. "I Poeti Estinti non sottoscriverebbero del tutto quello che hai appena detto"
Adesso è il mio turno di mandar giù lo scambio di battute, ma Eco non mi aspetta, continua a parlare con un tono di esaltazione crescente che dovrebbe appartenere molto più a me che a lui, in teoria: "E poi, rifletti e leggi bene l'articolo. Dice che la cerimonia di conversione si è svolta nella villa di Steve Porcaro, il co-autore delle musiche di Thriller. In Thriller, nel video, Michael Jackson si trasforma in continuazione... lupo mannaro, zombie..."
"Vuoi dire che c'è un significato nascosto? Che la cerimonia di conversione è in realtà una cerimonia di trasformazione?"
"Esatto, Hanuman. Esatto"

Resto un attimo a scrollare su e giù la schermata dell'articolo su Michael Jackson, poi cerco su Google delle immagini che lo ritraggano: le macumbe riescono meglio, quando hai un'immagine mentale nitida del tuo bersaglio.

"Cosa suggerisci?", chiedo a Eco, mentre salvo la foto che metterò in apertura a questo post.
"Ho letto alcuni dei commenti al tuo blog. Alcuni dicono di rivolgersi a un certo Von Beck. Fallo: Von Beck è un'autorità tra di noi, sugli eggregori, i nomi e le loro conseguenze"
"E dove posso trovarlo?"
"Oh - sorride Eco - ti dovrai sbattere un po', e tenere gli occhi aperti"

C'è un'ultima cosa che dovrei dirgli, e non so se sia il caso di farlo davvero.
Massì.

"Eco..."
"Dimmi"
"Credo che la persona che mi suggeriva di andare a trovare Von Beck, nei commenti al blog, sia la stessa che si raccomanda di non fidarmi di te"
"Direi che questo ne attesta in modo definitivo l'attendibilità", conclude lui.

sabato 18 ottobre 2008

Capitolo diciotto: Torovoronopotodozosocofoqomo

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La sensazione di un bel pezzo mancante continua.
Per quanto mi sforzi, per quanto resti lì a pensarci su, non riesco a recuperare quel capitolo sul mio blog, scomparso di colpo. Potrebbero averlo cancellato loro, i Poeti Estinti.
Il problema è che, pur non dovendo averlo scritto troppo tempo fa, non ricordo per niente di cosa parlasse.

E, proprio come Eco aveva previsto, salta fuori nei commenti un tizio che mi raccomanda di cercare un certo Von Beck, se voglio una mano.
Una mano in cosa?
Non ci sto più capendo niente.
Così, una sera ne parlo a lei, a Regina. Non la vedo da un pezzo, grossomodo da quando sono andato via.
Immagino che tutto il mio parlare possa avervi convinti che noi Narratori Criminali siamo cellule serratissime, organizzate, che ci vediamo sempre, che pianifichiamo cose, che formiamo piccole tribù. In parte é vero, in parte non lo é. In questi giorni, nessuno mi ha cercato e nemmeno io ho cercato nessuno. Si è sempre respirata quest'aria strana, che ho imparato ad assaporare spesso, in compagnia di Regina o di Eco. L'aria di qualcosa di imminente che sta arrivando, l'aria di doversi preparare.

Da chi, da cosa, non saprei.

Dopo un mucchio di tempo, è Regina che mi chiama. Mi chiede come sto, cosa sto facendo, facciamo chiacchiere come due normalissimi amici.
Io ballo con i convenevoli, sorrido e faccio battute. Temporeggio un sacco, perché nel momento in cui la sento sorridere, in cui semplicemente la risento e basta dopo non so neanche io quanto tempo, non ho voglia di fare altro che scherzare, parlare di tutto e nulla, respirarla a pieni polmoni.
Finché non ce la faccio più. E una frase che mi ero ripromesso di non pronunciare, mi scappa di mano.

"Ho paura".

Lei fa un respiro profondo, preoccupato. "Fai qualcosa stasera?"
"No"
"Invece sì, sei impegnato. Esci con me. Ti vengo a prendere sulle nove e mezzo e ci facciamo una birra"

La birra andiamo a farla a casa sua. E' dove l'ho conosciuta, a Bologna, l'appartamento in cui abbiamo tenuto la festa e in cui poi abbiamo giocato a scacchi. La scacchiera, in effetti, è ancora lì, sul letto, stessa disposizione dei pedoni di come l'abbiamo lasciata.
Così, signore e signori, le racconto tutto. Il blog, i Poeti Estinti, i messaggi che mi arrivano ogni tanto, inquietanti come non mai, e anche certe cose che non ho ancora detto nemmeno ad Eco.
La sensazione di essere meno consistente ad esempio, che dura da un paio di giorni a questa parte. Come se tutto quello che sono venisse riscritto di continuo da qualcuno e, a volte, me ne riuscissi perfino a rendere conto.

"E’ la stessa sensazione che ho anche io, da qualche tempo a questa parte - mormora Regina, un po' più rivolta a se stessa che non a me – Che qualcuno ci stia riscrivendo. Non hai l’impressione che il tempo giri un po’ più veloce, ultimamente? Come se qualcuno stesse facendo degli stacchi"
"Non sono matto solo io, vero?"

Sul computer di Regina parte da solo Winamp, non appena finisco di dirlo, con Love will tear us apart dei Joy Division. Rimaniamo entrambi senza riuscire a parlare, per un po', le espressioni tese e tirate, rattrappiti come se ci avessero appena buttato una secchiata di acqua gelida.

Mi tiene stretta la mano.

“Non trovi sia molto confortante, essere matti in due?”, le chiedo.
Lei fa un sogghigno.
"Ti offendi se ti dico di no?"
"… penso che sopravviverò"

Poi Regina fa un sorriso un po' nervoso."Ok, ok... ascolta. Forse, per qualche tempo, è meglio tenersi alla larga da qualsiasi cosa che non sia pura vita quotidiana. Tanto per capire cosa stia succedendo, se non ci stiamo immaginando tutto”
Siamo seduti entrambi sul letto. Si avvicina un po' di più a me.
"... insomma - continua lei - ci vuole una terapia d'urto. Per almeno due o tre settimane, ti converrebbe farti chiamare solo col tuo nome di battesimo. Scrivere meno che puoi. Fare cose abbastanza banali che non ti occupino molto la testa. E, soprattutto, tenerti bene alla larga da tutto questo"

Annuisco finché volete, ma la mia attenzione non è totalmente lì. Io stesso non sono del tutto lì, o almeno questa è la mia impressione.
Da quando si è avvicinata, buona parte della mia attenzione viene sviata sulla curva del suo naso, sugli occhi che spiccano nella pelle nera, profondi e molto, molto grandi. Quel tipo di grandezza che risveglia una stramba e ingiustificata nostalgia di chissà che cosa.
Occhi che adesso mi stanno fissando, chiedendomi silenziosamente quanto sia stato ad ascoltare tutto quello che ha detto.

"Credimi, è difficile, dopo averne avuto un assaggio. E'... è che è tutto fantastico, anche le cose peggiori".
Mi sembra una frase goffa e idiota non appena mi esce di bocca. Però è vera, senza dubbio.

Resta a studiarmi, con la stessa espressione di prima. Poi scuote la testa."Non tutto è fantastico, credimi. E le cose davvero peggiori... oddio, vuoi vedere le cose davvero peggiori?"

Mi esibisco nel mio miglior sorriso da scimmia. Quello che la incupisce tanto e che a me, invece, negli ultimi tempi riesce sempre così bene.
" Ti assicuro che il mio concetto di davvero peggiore ha subìto una ridefinizione bella grossa, da quando abbiamo visto il primo Agente della Coerenza"
"Fidati, nemmeno questo sarà uno spettacolo piacevole", risponde lei, mettendosi al computer e scrivendo l'indirizzo di un... forum? sito? Sembrerebbe un forum.
http://www.stormfront.org/
"Guarda", mi dice.

E' in inglese, ma lei clicca rapida sulla sezione italiana.
Guardo, giusto una scorsa veloce ai topic.

E' lecito avere amicizie non ariane?
Messaggi subliminali fomentatori di meticciamento nei vari media.
INVASIONE ALLOGENI: 4 MILIONI! (IL 20% IRREGOLARE!)
BUON COMPLEANNO, ADOLF HITLER!
Quando si dice che i negri sono cretini.

Guardo verso Regina."Ma dai, sono chiaramente dei mentecatti. E allora? Lo metto nei bookmark insieme a quelli di Comunione e Liberazione, così li leggo quando voglio sentirmi una persona più intelligente della media"
Regina mi fissa. La sua espressione è seria, seria come non mai. "Sapevi che c'è gente dei nostri, tra loro?"
"Mi prendi per il culo?"
No, non lo sta facendo, ovviamente. Si vede che, in questo momento, l'idea di scherzarci su è parecchio lontana. Sia da parte mia che da parte sua.

"Sono anni che raccontano la stessa storia. Parlano di razze superiori e razze inferiori. Dicono che i campi di concentramento non sono mai esistiti, che è stata solo propaganda. Raccontano una storia falsa, che potrebbe venir smentita da chiunque abbia un nonno ancora in vita. E sai perché?"
"Perché... merda... perché credono che più gente convinceranno che è andata davvero così..."
"... più riusciranno a riscrivere davvero il passato. Bravo, stai imparando bene. E più ci penso, più sono le volte in cui mi chiedo se non sia una difesa legittima, l'esistenza degli Agenti della Coerenza"

Restiamo in silenzio, un silenzio rotto solo dal ronzare dell'hard disk del pc di Regina.
Guardo ancora un po' lo schermo.
Sorrido.

"Fatevi questo esempio di meticciato, teste di cazzo", ghigno, prima di baciare Regina sulle labbra.
"... Hanuman?", dice lei, spalancando gli occhi.

mercoledì 1 ottobre 2008

Capitolo diciassette: Qasatacapalaranamahadaga

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Il resto è puro delirio.
Mi ritrovo a casa, senza la pallida idea di come esserci arrivato. Un attimo prima, sono lì pronto a collassare. Un attimo dopo, ed eccomi nel mio letto. Tutto così, senza soluzione di continuità tra una scena e un'altra, esattamente come se qualche invisibile Signor Regista avesse deciso, a un certo punto, di eliminare le parti poco interessanti e prodursi in un bel cut.
Aspetto la mattinata, poi chiamo Eco. Gli dico che mi è successo qualcosa, mentre ero via. Che non so bene nemmeno io cosa, non lo ricordo.
Mi dice di aspettare un paio di giorni. Un paio di giorni e ci troviamo.

"Eco, io ho bisogno di capirci qualcosa ADESSO"
"Un paio di giorni, Hanuman. Vedrai che scorreranno veloci"

Eccome, se scorrono veloci.
I due giorni successivi cadono a piombo in una giostra di piccole formalità che non faccio in tempo a sbrigare, amici che non faccio in tempo a sentire, perfino qualche puntata di Torchwood che non faccio in tempo a vedere.
Di nuovo, il Regista Invisibile opera dei tagli necessari a tener viva l'attenzione. Così, mi ritrovo, come se nemmeno fossero passati dieci, quindici minuti. Un mucchio di passato alle spalle, un presente sbigottito e un futuro che non se la passa troppo bene.

Eco e io parliamo nel solito bar. Anche la sensazione a guardar fuori dalla vetrina, è la solita. Una boccia per pesci, in cui centinaia di volti si fanno largo l'uno addosso all'altro, correndo, salutando, ripetendosi e ripetendo sempre le stesse parole.
Eco ha un tempismo straordinario, nello scegliere di darci appuntamento sempre a un'ora in cui qui non c'é quasi nessuno. Fortuna da cospiratore, la chiama. Mi piace molto, come termine. Fortuna da cospiratore.

"Quindi li conoscevi?"
"Qualcosa", risponde Eco, con un tono che sembra sottointendere tutto.Manda giù un sorso di una qualche strano the aromatizzato, in una tazza marrone, un po' sbreccata, incompatibile all'aria sofisticata che gli piace assumere sempre.
"Ho conosciuto Araba Fenice, non appena si era unita ai Poeti Estinti. Saranno stati un po' di anni fa, ed ero ancora confuso", continua lui.
Poi resta in silenzio, dandomi la sensazione strana di voler aggiungere qualcos'altro, senza poterlo fare.

Rimaniamo un po' in silenzio."Cosa credi che mi stia succedendo?"
Si stringe nelle spalle, cercando nel fondo della tazza un qualche oracolo che gli suggerisca come attaccare il discorso. Un lenzuolo azzurro sventola da una bancarella sulla strada proprio davanti a noi. Visto da qui, assomiglia a una specie di vela e, non so perché, mi provoca una strana via di mezzo tra invidia e nostalgia.
“Questa è una risposta che non posso darti. Tu stesso mi hai impedito di farlo”

Rimango a guardarlo come uno stupido, condizione a cui mi sto inesorabilmente abituando.
"Scusa Eco, ma che cazzo stai dicendo? Se ti ho chiamato due giorni fa, è stato proprio per farmi spiegare da te che cosa sta succedendo”
"Ascoltami bene. Può darsi che tu non lo stia percependo ora, ma hai infranto tutte le regole del gioco. Una a una"

Resto in silenzio per un bel po’. Mi vengono in mente un paio di cose da dirgli, ma richiudo la bocca in tempo.
“Cosa intendi, per regole del gioco?”

Eco si sporge lungo il tavolo. Per la prima volta, lo vedo fare attenzione alla possibilità che ci stia ascoltando qualcuno… e anche un ruga di preoccupazione, che non mi fa presagire nulla di buono.
“Intendo che quello che stai facendo è molto pericoloso. E tu lo fai a cuor leggero, senza nemmeno rendertene conto. L’unica cosa che posso fare, è raccontarti una storia. Poi, trai tu le tue conclusioni”

“Va bene – dico alla fine – Va bene, raccontami la storia”

Eco rimane a cincischiare con la sua tazza sbreccata. Ne accarezza l'orlo e agita quel che c'è rimasto dentro. Per una volta, più he teatralità sembra sincero imbarazzo, difficoltà nel trovare le parole giuste. Non proprio la norma, per lui.
"Una volta fecero uno strano esperimento con Kafka. I primi Narratori Criminali"
"Con... Kafka?"
" Al buon Franz venne comunicato che su di lui pendeva un processo, senza specificare i capi di accusa né nient'altro. Lo tormentarono per mesi. Il Processo... l'hai letto, vero? non è propriamente un romanzo. E' più un diario"
"Ma perché una cosa simile?"
"Come ti ho detto, fu un esperimento. Volevano vedere cosa succede, quando immergi qualcuno in una situazione da romanzo. Cosa ti rende umano, Hanuman? La percezione della realtà attorno e dentro di te, ti rende umano. Nient’altro. Quando la realtà attorno a te è pura finzione letteraria… allora anche tu diventi il personaggio di un racconto”

"Aspetta", dico dopo qualche minuto "Vuoi dirmi che volevano trasformare Kafka in un personaggio letterario?"

Eco non risponde subito. Le vele azzurre continuano a sbattere sulla bancarella della strada di fronte, e la sua voce non arriva.
La sento dopo una pausa che sembra essere durata ore, proprio quando mi volto per spezzare il silenzio.
"Quello che i Narratori Criminali hanno sempre voluto fare è stato questo, se ci pensi. Prendere il controllo della propria trama"
"E questo cosa c’entra con me?"
"Lo vedrai - commenta Eco con un sorriso – Tu sei un pazzo, Hanuman. Un pazzo pericoloso. Posso dirtelo solo ora, che siamo in uno strano spazio neutro all’interno della storia”
"Eco… per piacere, piantala un attimo di fare l’uomo del mistero e spiegati meglio"
"Lo vuoi davvero? Bene, lo farò".

Quando alza il sopracciglio e la bocca si piega in un sorriso così secco da sembrare una ruga, mi sento d'essere del tutto l'idiota che giustamente sono.
"Presto, scriverai della nostra conversazione sul tuo blog. Qualcuno, in un commento, ti dirà di cercare un certo Von Beck. Uno che conosce bene gli eggregori e che può darti una mano nel tuo piano assurdo di uccidere Michael Jackson con una macumba letteraria". Si ferma solo un attimo, per controllare le mie reazioni. Nessuna, sto ad ascoltarlo e ho paura, sì. Molta paura.
“Allora – continua lui – ti metterai in cerca di Von Beck. Seguirai un percorso. E questo percorso ti porterà a fare esperimenti. Esperimenti strani come quello su Kafka. E ti renderai conto di quanto possano essere agghiaccianti”
“Oppure – commento con un sorrisetto che non vorrebbe essere così tremante – se qualcuno mi nomina questo Von Beck, potrò fargli una bella risata in faccia e continuare sulla mia strada”
“No, Hanuman. In un racconto, il libero arbitrio non esiste. In realtà tu stai già cercando Von Beck. E tra pochi giorni, ti rivolgerai a me come se questa conversazione non fosse mai avvenuta”

Respiro a pieni polmoni, lasciando passare il momento in cui il cameriere viene a prendere la tazza di Eco. Io non ho preso niente e me ne pento: vorrei mangiare come un maiale, solo per sentire il sapore del cibo sotto i denti, masticarlo, sentirlo croccante e fisico, mentre mi scende nello stomaco.
Però non ordino nulla.
"E a Kafka cosa successe? E' morto e sepolto, e non mi pare sia diventato il dio degli Impiegati Angosciati"
"La sua metamorfosi durò molti anni e fu quasi impercettibile per la maggior parte delle persone. Ti assicuro che siamo in pochi a sapere che non era la tubercolosi, il motivo per cui non riuscì a dire più una parola, prima di morire..."
Si alza e prende la giacca. Sempre lo stesso segnale per dirmi che la conversazione sta finendo.

"... semplicemente la voce era diventata lo stesso ronzio di uno scarafaggio"

mercoledì 10 settembre 2008

Capitolo quindici: Vanacaramalasa

By Vespero Pictures, Images and Photos

"Il Re vuole vederti", sussurra Araba Fenice.


Nel salone risuona un campanello, uno di quelli da reception, e tutta la gente che ho intorno si ferma di colpo. Sono ore che cerco di farmi venire in mente dove ho già visto le loro facce, dove ho già sentito le loro voci. Ogni volta, la sensazione è la stessa di quando si ha un nome sulla punta della lingua, pronto a sfuggire in continuazione.
Non mi dispiaceva questo posto, quando Araba Fenice mi ha portato qui, dopo ore a guidare in una strada che si contorceva di curve nel buio. C'era un'aria da film di 007: tutti questi riccastri tirati a lucido, giovani e vecchi, innaturalmente belli e un po' plasticosi. Sorriso smagliante e cocktail in mano.


Mi sono navigati intorno per tutta sera. Navigati, sì sì. Come pesci predatori: abbastanza lontano, ma mai troppo. Sempre vicini a sufficienza per controllare cosa facevo, sentire il mio odore, ascoltare i miei discorsi. E fare in modo che io ascoltassi i loro.
Nulla di incredibile, all'inizio. Discussioni di lavoro, di impegni, come se ne sentono a decine, qui, solo con argomenti per me un po' più interessanti del solito. Film da girare. Romanzi da scrivere. Album in preparazione.
Sempre con quel modo di fare da circolo esclusivo di artisti. Da circolo esclusivo massonico di artisti, in cui i rapporti di potere e di obblighi si percepiscono invisibili e potenti come ley-lines tra una persona e un'altra.


Eppure, se ascolti con quella strana predisposizione che hai spesso da ubriaco, in cui ti concentri più sui discorsi di sottofondo che su quelli in primo piano, cogli un paio di battute strane.

Alcuni parlano di maschere di Carnevale, ad esempio. Arlecchino, Pierrot, Colombina... cose così. Devono essere stranieri, forse inglesi. Ogni tanto storpiano i nomi, facendoli suonare in modo involontariamente buffo: Harley Quin, Pierre Hot.
Ma nel tono con cui ne parlano non c'è nulla di divertente. E' pieno di un rispetto misto a timore reverenziale, quasi si stessero riferendo a strane divinità in carne ed ossa, capaci di fulminarle nello stesso momento in cui sto scrivendo queste righe.
Un medico tedesco che mi hanno presentato di sfuggita e che non si è mai tolto i guanti, mi guarda proprio mentre ne stanno parlando. Si assicura che stia curiosando nei loro discorsi, fa un sorriso soddisfatto, mi fa vergognare come un cane e riprende a discutere con gli altri.


Poi, come dicevo, il campanello suona. E l'aperitivo alla 007 diventa una foto di gruppo dei fantasmi di Shining.


Si voltano tutti a guardarmi. Tutti.

Araba Fenice viene verso di me. Mi porge una mano e gliela stringo forte, mentre continuo a guardarmi attorno.
Tutti sorridono, qualcuno annuisce. Il medico tedesco batte le mani in un applauso educato. Se ne aggiunge un altro e un altro ancora, finché il mondo intorno si curva in un unico sorriso affilato, con cui non sono troppo sicuro di voler avere a che fare.
Araba Fenice mi trascina dolcemente con lei, fuori dal salone, giù per le scale.
"Ci rivediamo nei fumetti!", mi dice qualcuno in mezzo agli altri. Non so se sia una battuta ma, tanto per non correre rischi, annuisco e faccio un sorriso che spero non suoni troppo nervoso.

Scendiamo. E' una scala buia, ci credereste? uguale a quella di cui vi parlavo qualche tempo fa. Mi appoggio per un momento al muro e sono sicuro che tra poco riascolterò lo stesso urlo, lo stesso grido ibrido, la stessa sensazione di dover correre, lontano e forte, perché qualcosa che è più veloce di te sta salendo per quei gradini.
"Ti senti come Alice davanti alla tana del Bianconiglio?", mi chiede sottovoce, quando siamo rimasti noi, pochi scalini da fare e una porta chiusa.
"Un po' "
Mi stringe forte una mano e apre la porta.

Dentro, lo stanzone in cui siamo è grande quasi quanto la sala degli aperativi che ho appena lasciato. In realtà, lo è un po' di più, vuoto com'é e con una serie di larghissime lenzuola trasparenti, a delimitarlo lungo tutte le pareti. Una via di mezzo tra la sala della Loggia Nera e il collegio di Suspiria. Ed esattamente come in Suspiria, un respiro pesante, affaticato, di sottofondo.
Il respiro di qualcosa dalla mole enorme. Puzza di disinfettante. Profumo con retrogusto di merda. Un pavimento che sento appiccicaticcio, ogni volta che muovo un passo.

"Non si potrebbe accendere la luce?"
La mia voce sta diventando nervosa.
Un rumore grasso e liquido, un brutto brontolio di stomaco nell'oscurità.
"Il Re dice che non c'è motivo per cui negarti questo favore", dice Araba Fenice, e una luce si accende.

Si accende dietro una delle tende. Non molto forte, quanto basta per illuminare una gigantesca sagoma nera di cui non si riescono a indovinare altro che i contorni. E i contorni disegnano quello che appare come un trono. Un trono su cui è seduto qualcuno... da dietro la tenda non riesco a capire chi sia.

Potrei azzardarmi a dire che non capisco nemmeno cosa sia. Quando alza una mano per salutare, l'impressione che ho è che sia fatta più di gelatina, che di carne.

E' quella cosa a produrre il brontolio di stomaco. Freme ogni volta che si sente quel suono, come se qualcosa la scuotesse in profondità.

"Il Re è molto felice di vederti", traduce di nuovo Araba Fenice.
Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi scrocchio le dita e mi rendo conto di un ghigno isterico che mi è appena germinato sulle labbra, senza che riesca (o voglia) fare molto per impedirlo.
"Una volta per tutte... che cosa siete, voi?"
"Siamo i Poeti Estinti, Hanuman. Tutti quelli che hai visto di sopra, fanno parte della nostra famiglia. Molti li hai riconosciuti, per quanto si siano sottoposti a qualche operazione, per passare un po' più inosservati. Sì, quello accanto all'entrata era davvero Paul McCartney, non uno che gli somiglia e nemmeno il sosia che ha suonato coi Beatles per tutto questo tempo. E' quello che ha lasciato tracce di sé dappertutto... quello morto. Quello di Paul is dead. E, come lui, ce ne sono tanti altri."
"Mi stai prendendo in giro"
"Può darsi. E può darsi di no. A te la scelta"
"Ma che cosa siete?"
"Chi siamo, Hanuman - sussurra Araba Fenice, con il sorriso che riappare sbiadito - Siamo pur sempre umani, per ora. Siamo un'unica grande famiglia, con uno scopo comune"

Mi viene più vicina, mentre lo sussurra. Il brontolio di stomaco sembra un tuono. Un tuono di carne e succhi gastrici.

"Far sì che le persone costruiscano miti su di noi. E rendere questi miti così forti, così potenti, da trasformare noi stessi in leggende urbane, storie raccontate di bocca in bocca a cui credere ciecamente... non più umani ma divinità. Nuove divinità pop"

Qualcosa nel mio stomaco si piega e si fa molle. Qualcosa che spinge per essere rigettato fuori ORA, ADESSO. Le gambe tremano per un momento, poi è tutta questione di trovare una sorta di baricentro e rimango in piedi. Per il momento.

"Sai benissimo chi é il Re - sogghigna Araba Fenice - Non hai bisogno di farti cantare Fever. Se lo vedi così, è perché si è avvicinato più di tutti noi ai nostri scopi. E' pura potenzialità, è fatto dello stesso tessuto indefinito e mutevole dei racconti. Altre volte, quando le storie su di lui diventano statiche e ripetitive, la sua carne si fa della consistenza del marmo..."

Un altro gorgoglio ci interrompe.
"Dice che anche tu, spacciandoti per un personaggio dei tuoi racconti, scrivendo una storia in cui mescoli ciò che appartiene ad Hanuman e al suo scrittore, percorri la nostra strada. Potresti diventare qualcosa di interessante... non più di un semidio letterario, intendiamoci. E comunque ci vorrebbe del tempo, ci vorrebbero degli insegnamenti"
Vorrei chiederle allora cosa vogliono, perché proprio io. La gola si graffia in un gracchiare di suoni a casaccio.
"E quindi perchè mi avete invitato? Per dirmi questo?", chiedo finalmente, cercando di articolare ogni parola con calma.
Il Re fa un rumore diverso, adesso. E' come se cercasse di parlare ma, di nuovo, gli escono di dosso solo rivoli di suoni ripugnanti. Araba Fenice annuisce.
"No. Ciò che il Re vuole che tu sappia, è un'altra cosa"

Si fa ancora più vicino alle mie labbra. Le sfiora, mentre parla.

"La bomba non ha una natura gentile... ", canticchia sull'aria di una vecchia canzone di De André, prima che una botta fortissima alla testa riempia tutto di puntini neri.

lunedì 25 agosto 2008

Capitolo quattordici: Dagasarapana

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Sono giorni di maestrale e il mare è spesso una foresta impraticabile di onde.
Mi trovo a passeggiare in giro per porti, moli, spiagge abbandonate al crepuscolo. Trovo un po' più di tempo per scrivere, io, che in questi giorni farei tutt'altro.

Per farvela breve: il 18 sono arrivato dove dovevo arrivare e, come aveva predetto l'anonimo amico nei commenti, loro mi hanno contattato. Lei, cioè. Non ho mai ancora avuto a che fare con nessun altro, a parte Araba Fenice. Mi ha detto di rappresentare i Poeti Estinti ma, quando le ho chiesto di dirmi chi fossero e cosa volessero (cosa volessero da me, soprattutto), la risposta è sempre stata la stessa.

"Non fare domande. Guarda, ascolta, distraiti. Quando sarà il caso di parlare e di presentarti agli altri, lo saprai"

Sembra una specie di prova, le ho detto.
Lo é, mi ha risposto lei.

Così camminiamo, parliamo di cose futili e intime come chi si conosce da un pezzo. Lei è indubbiamente molto più vecchia di me, ma sembra essersi cristallizzata nel tempo. Non una ruga in più dai tempi in cui recitava.
E quando sorride, giuro, nel suo sorriso ci sono tutte le donne che non avrò mai.

Camminiamo molto sulle spiagge, l'avete visto nel capitolo precedente. A certe ore del mattino o della sera, ne trovi parecchie deserte, col vento che ti spruzza il mare in faccia e viceversa. E quando qualche altro essere umano c'é, Araba Fenice si diverte ad ascoltarne i discorsi.
Legge i commenti di questo blog, li commenta a sua volta. Mi dice di salutarti, Rav, e che ti aspetta per una vecchia storia rimasta in sospeso.
Io, invece, non posso fare a meno di notare che la gente che sta scrive qui manda messaggi sempre più strani e inquietanti, di recente. Per quanto possano valere i miei giuramenti in proposito, vi assicuro che non sono io che mi autospedisco minacce e oracoli. Ne so quanto voi e, no, non che trovi nemmeno io la cosa molto rassicurante.
Ma va bene così, anzi benissimo. Una delle ragioni per cui ho iniziato a scrivere, oltre a voler uccidere Michael Jackson (tranquilli, non me ne sono scordato) è spaventarmi un po'.
Adoro avere questo genere di paura.

"Cosa ti hanno insegnato, per ora, Eco e Regina?", mi chiede un giorno Araba Fenice.
Rimango in difficoltà. Tante cose, nessuna. Tutto è stato un po' troppo caotico negli ultimi tempi, tra iniziazioni, riti di Babele, eggregori e Agenti della Coerenza.
"Tu cosa mi insegnerai?", le chiedo, tanto perché rigirare le domande è la cosa migliore in cui riesco, quando non so che altro dire.

Ti insegnerò che le storie non nascono solo da sogni, linguaggio e fantasia. Nascono da paura, pugni nello stomaco, rabbia cieca e mele avvelenate. E che sono storie potenti, perché urlano più forte delle altre, ti si attaccano addosso e ti cambiano per sempre. Per sempre.

Non me lo dice davvero. Lo pensa abbastanza forte, però. E mi sorride, come se avesse capito che ho capito anche io.

"Qual'è uno dei tuoi ricordi peggiori?", chiede poi.
"Perché vuoi saperlo?"
"Perché è comunque una storia. Voglio vedere come ne racconti una che non vorresti ricordare"

Rimaniamo un po' in silenzio, noi due.

"In riva al mare, io e mio padre, anni fa, come me e te adesso. E' stato dopo una litigata furibonda tra i miei. Io adoravo nuotare, lo adoro anche adesso. Se vado in acqua non ne uscirei mai: mi ci sdraio, ci sbraccio, nuoto malissimo ma mi diverto. Lo bevo e lo abbraccio, lo faccio fino a perderci il fiato. E' sempre stato così per me"
"Anche allora, il giorno in cui i tuoi litigarono?"
"Sì. Mio padre mi aveva portato a nuotare per farmi distrarre, ma io avevo lo stomaco chiuso. Guardavo il mare e sentivo un rancore improvviso contro di lui, contro i miei genitori, contro il posto in cui ero, dove mi divertivo fino a qualche giorno prima e mi sarei divertito il giorno dopo.
"Mio padre mi chiese se volevo nuotare o giocare un po'. Volevo farlo, beninteso.

"Però continuavo a guardare il mare con lo stomaco che nemmeno andava su e giù come prima, ormai. E alla fine dissi a mio padre di no"

Rimango un po' in silenzio. "Non una gran cosa, eh? Molto banale. L'ho raccontata anche male, di fretta. Però, non riuscirei a farlo in modo diverso"
"Forse", dice lei, indecifrabile.
Non so se si riferisca al fatto che non sia una gran storia, che l'ho raccontata male, che non potevo trovarle un abito migliore, per così dire.

Poco lontano, una ragazza ci guarda. E' vestita con una maglietta smessa, un paio di pantaloncini corti, occhiali enormi, di quelli anni Settanta.
Per un attimo sono quasi sicuro sia il mio eggregore custode, Allecto. Ma non ha i capelli rossi, sono neri e lisci, e la faccia è di chi ti fissa e contemporaneamente pensa cazzo guardi?

Sussurro la frase con cui, nei racconti da cui è nata, firmava sempre le sue lettere. Exù Rei. Così, tanto per stare sul sicuro e un po' per gioco.

Non risponde, volta lo sguardo e io mi sento un po' triste.

mercoledì 20 agosto 2008

Capitolo tredici: Gadanaracasata

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Lei mi cammina accanto, oscurando con la sola presenza le prove generali di tramonto delle sei e mezza del pomeriggio. Piedi nudi sulla sabbia, è la dimostrazione vivente di quanto le persone non siano mai attente a nulla.

Perché, va bene, potrai non aver visto abbastanza film porno da riconoscerla, ma solo un paio di anni fa era un continuo di speciali televisivi su gente che giurava di averla vista viva, gente che assicurava di averci avuto una relazione, gente che garantiva di essere un suo qualche figlio nascosto. Anche il nome da battaglia non è proprio, per dirla con le parole di Eco, sotto le righe.
Araba Fenice.

Araba Fenice mi chiede: "Hai ancora paura?"
"Solo delle chiacchiere della gente", le rispondo. In un solo tratto di spiaggia, ho sentito almeno un chilometro di battute fuori luogo su immigrati, clandestini e non, e di discorsi che non avrei mai creduto possibile esistessero. Troppo da macchietta, da cattivo di un brutto fotoromanzo.

Faccio un sospiro che suona un po' strozzato.

"Sarebbe bellissimo qui, se non ci fosse nessuno. Se qualcuno avesse l'idea di irrorare la zona coi gas nervini"
Araba Fenice annuisce. Fa uno dei suoi sorrisi, obliqui e sfaccettati. "Una volta, ho parlato con la tua amica... Regina. E' stato prima di unirmi ai Poeti Estinti"
"E...?"
"Ed era affascinante, senza dubbio. Ti stupiresti se ti dicessi quante persone la reputano tale. Sai che molti la considerano il leader di tutti i Narratori Criminali?"


In realtà, mi stupisce solo fino a un certo punto. Ho visto come la salutavano il giorno della mia iniziazione. Chi amichevolmente, chi con deferenza e chi affogando quella stessa deferenza in una punta di sarcasmo. Sia come sia, la rendevano tutti una specie di omaggio.

"Affascinante, sì - prosegue Araba Fenice - ma il suo difetto è di avere una fiducia un po' ottusa verso le altre persone. Tutti"
"E tu no?"
"Ma guardali, Hanuman. Guarda ognuno di loro. Di cosa parlano? Di come gliel'hanno cantate a quell'ambulante? Di come bisognerebbe sparare a certa gente sui gommoni? O di come è inevitabile chinarsi e leccare il suolo su cui camminano i propri capi? Ci pensi a come sarebbe il mondo, se loro avessero il potere di rendere reali le storie che sognano?"

Cerco un contraddittorio, uno qualunque. Forse, in questo momento sono troppo stanco per trovarne uno convincente. Anche il mare sembra averne abbastanza delle chiacchiere inutili, delle lamentele in saldo, dei discorsi da mercato. Sento il suo stomaco torcersi in varie ondate di disgusto.
Vicino a me, sotto un ombrellone, qualcuno parla di drogati. In termini che lascio alla vostra fervida immaginazione.

"La gente non merita fiducia - continua lei - Chi è capace di immaginare una vita migliore, sopravviva. Gli altri... beh, comincia a pensare che potrebbero non essere quelli della Coerenza, i nemici. I nemici sono loro. Questi che vedi intorno a te, consorti e figli al seguito. I nemici sono gli altri".

sabato 16 agosto 2008

Capitolo dodici: Lavaganasaradaba

by Jacopo Camagni

Non ha detto molto, da quando Hanuman l'ha liberata.
Ha detto di chiamarsi Allecto. Chiamarsi, farsi chiamare, non ha molta importanza. I nostri veri nomi sono quelli che ci scegliamo, ha sentito dire qualche tempo fa.

(Hanuman a volte pensa di averla presa troppo alla lettera, quella frase. Succede quando deve sforzarsi per farsi tornare in mente il proprio nome di battesimo)

Allecto è un carcere. Una prigione.
Le prime volte in cui si parlava della Fortress Europe, Hanuman credeva fosse un luogo. Gliela descrivevano come un campo di concentramento, una piccola Guantanamo in cui il nemico buttava dentro i ribelli catturati. Un posto da qualche parte in Grecia.
Ci sono volute un bel po' di indagini, settimane di appostamento e sospensione dell'incredulità, per farsi un'idea precisa di come stavano le cose. Fortress Europe era una prigione per eggregori, creature immaginarie, personaggi dei romanzi e virus memetici considerati pericolosi per il Nuovo Ordine Mondiale. Una prigione per idee, in cui fantasie destabilizzanti e rese concrete dall'immaginario collettivo vengono catturate e confinate.
Ma non è un luogo.
E' una persona.
Hanno sigillato tutti i prigionieri dentro una persona reale, chiudendola a sua volta in una struttura di massima sicurezza nella periferia di Atene.
Fortress Europe è il nome con cui la gente del Nuovo Ordine Mondiale chiama Allecto.

Quando Hanuman l'ha liberata, Allecto era posseduta da una masnada di divinità dimenticate e archetipi anarchici che spingevano inutilmente per uscire. Ogni tanto era lei, ogni tanto qualcosa di diverso. Il personaggio che la possiede più spesso è Exu, il trickster della Candomblé. Quando Exu arriva, costringe Allecto a farsi del male, a ferirsi e ad assaporare sangue, sesso e carne. Allecto lo ama.

Hanuman ha lavorato parecchio per farle superare il trauma post-impianto. Perchè, per quanto lui ne ha capito, per Allecto la sensazione è quella di affogare in un magma di personalità aliene. Di ingarbugliarsi tra personaggi su personaggi che parlano attraverso il suo corpo e gesticolano attraverso le sue membra, fino a dissolversi in loro. Finché Allecto non esiste più.
Allora, ogni sera la costringe a raccontargli qualcosa. Una storia, una banalità, un episodio dell'infanzia. Qualcosa che abbia a che fare con lei sola. Impara molto: impara anche cose che forse non dovrebbe sapere, ma non ci fa caso. Quando tocca un nervo scoperto si scusa e non si sofferma troppo... ma le chiede comunque di continuare a raccontare.
Finché lei non inizia a orientarsi tra tutte le parapersonalità che le hanno cacciato dentro a forza. E si ricorda un po' di più di cosa voglia dire essere Allecto.

Va avanti così, sforzandosi di farla mangiare, tenendola ferma durante le sue crisi, improvvisando ogni volta. Perché, merda, se c'è una cosa per cui non ha MAI avuto la minima sicurezza, è proprio prendersi cura degli altri.
Lui prova ad aiutarla, in cambio lei si fa aiutare senza tante storie. In un certo senso, si danno una mano a vicenda. Le insegna qualcosa. A sparare, a fare esplosivi, a fare un'offerta ai loa e a invocare il loro aiuto. A far magia in modo letale. La vede imparare in fretta, animata da un odio freddo e consapevole che a volte lo spaventa. Un odio che non esplode mai, ma che porta a pianificare e a diventare bravi in quello che si fa. Il peggior odio possibile, di sicuro.

Hanuman spesso si addormenta vicino a lei. Si sveglia ogni tanto, di soprassalto, quando il suo respiro si fa irregolare. Si maledice perchè, ne era sicuro, ha sbagliato di certo qualcosa. Poi, lei si quieta e anche lui si calma, si riaddormenta.

Ora è lì, disteso al suo fianco. I capelli di lei gli fanno il solletico sulla guancia. Sono rossi, un rosso artificiale e molto cupo. Il naso sfiora il collo. Un naso un po' all'insù, cosparso di lentiggini. Gli respira addosso, un ritmo regolare, lento. Più pacifico del solito e piuttosto caldo.
Gli si raggomitola vicino. La gamba gli sfiora un fianco, poi si strofina su una delle sue. Allecto ha gambe lunghe, magre ma sode, con qualche cicatrice molto vecchia che lascia un sentiero sulla carnagione chiara.
Hanuman trattiene il fiato, d'istinto.
La mano di Allecto si muove lungo la pancia. Ha dita sottili, leggere. Unghie tagliate da poco, perché non si faccia del male durante una delle crisi. Anche le mani hanno qualche cicatrice. Sembra siano dappertutto. Le dita risalgono, sfiorano la barba di lui, ci giocherellano, ridiscendono lungo il collo. Si fermano sul petto, carezzandolo.
COSA CAZZO SUCCEDE?, pensa lui.

La sente spostare la testa, chinarla sul petto. Le labbra gli appoggiano un bacio appena accennato sulla bocca. Si spostano sui capezzoli e baciano anche quelli.
Il buio acquista una sfumatura strana: sembra avere una luce propria, fatta di respiri e di movimenti sommessi nel silenzio.

Hanuman si irrigidisce e... e non sa bene cosa fare.

"Hanuman", sussurra Allecto, con l'alito che ha ancora un po' del cioccolato che lui le fa mangiare quando lo stomaco le si fa di ghiaccio e non riesce a mandar giù altro.
Il petto batte con un ritmo da giungla. Il petto di entrambi.
La sua mano gli artiglia la schiena. Poi, prima che se ne renda conto, lui se la sta stringendo contro, i seni piccoli schiacciati contro al petto. Le morde il collo, leggermente. Le unghie di lei strisciano più lente contro la colonna vertebrale.

L'aroma di quello strano sapore di cioccolato gli invade la bocca.

*

Una volta, Hanuman era il nome del protagonista di alcuni miei racconti. Era il personaggio che interpretavo in una campagna di giochi di ruolo. Allecto se l'era inventata una mia amica: la storia era un po' diversa da quella che vi ho raccontato adesso, ma c'erano molti punti in comune. Hanuman e Allecto erano più o meno una coppia: pianificavano azioni di sabotaggio e sparavano ai cattivi. Erano terribili e si divertivano a essere tali.

Ora. Sto partendo, lo sapete e sapete cosa sto andando a fare. Gli ultimi messaggi mi stanno spaventando a morte, perchè - non so come - chi ha mandato il messaggio su quello che dovrebbe succedermi, ha sparato una data che non sembra affatto buttata lì a caso. E riguardo a quello che si è firmato come Eco... beh, poco fa ho parlato con lui. Con quello vero, cioé. Dice di non aver mai mandato nessun commento.

Io non so cosa vogliano da me. Ma che cazzo, sono l'ultimo arrivato.

Quindi, ecco cosa sto cercando di fare. Ho provato a creare un eggregore. Se è vero che c'è qualche assonanza tra me e il mio personaggio, prenderne un altro a cui Hanuman è stato molto legato, mi sembrava l'idea migliore. Allecto non è esattamente come l'aveva immaginata la mia amica. E' più... mia, in un certo senso. Ci deve essere qualcosa di me, per darle vita. E mi scuso con chi digerisce poco scene di questo genere: per darle un corpo, descrivere la sua prima notte con Hanuman mi pareva la cosa più giusta da fare. Anche questo raconto è una versione più mia di una cosa che scrissi a quattro mani con la mia amica. Partire e rielaborare un racconto rimpallato tra me e un'altra persona dovrebbe aiutare a rendere Allecto un po' meno finta.

Ora, ecco un favore che vi chiedo. Aiutatemi a darle corpo. Eco mi ha grossomodo spiegato che divinità, angeli custodi e personaggi immaginari si evocano allo stesso modo, visto che sono la stessa cosa. Si tratta di renderli concreti credendo nella loro esistenza o almeno non negandola a priori. Io non so se davvero funzioni così: a me sembra troppo facile e in stile Mary Poppins. Ci penso e mi dico che, con questo discorso, quando si è bambini si dovrebbero evocare eggregori a nastro. Beh, se uno pensa a quanti bambini sono convinti di avere un amico invisibile o un mostro sotto al letto, magari ha senso.
Comunque ripeto: non ne ho idea. Non ne ho idea di cosa si debba fare davvero. Posso solo scriverci su e immaginare fino a sanguinare.
Se il tutto funziona, non credo che si manifesterà tipo apparizione, intendiamoci. Magari sarà una ragazza che le somiglia, magari qualcuna che condivide determinate caratteristiche. Magari aiuterà semplicemente a rendere qualche coincidenza più favorevole. Come vi spiegavo all'inizio, questo genere di cose è un po' simile agli uomini preistorici che disegnavano scene di caccia.

Si vede molto che è la prima volta che faccio qualcosa del genere, vero? Temo che l'improvvisazione sia il piatto del giorno. Magari Allecto non verrà stabile come Michael Jackson, ma a me basta anche meno, anche che... non so. Ehi, avete notato quante volte sto ripetendo questo non so, negli ultimi tempi?
Merda.

Però è una garanzia di protezione, se riesce. Se dove vado si mette davvero male, ho una possibilità su un milione che qualcosa di simile ad Allecto mi dia una mano.

Ok, se iniziate subito a prendermi per matto, vi assicuro che non andremo molto avanti.
E da qualche parte bisognerà pure che cominci anche io.

venerdì 15 agosto 2008

Capitolo undici: Nasaradagamavata

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Innanzitutto, grazie ad amici e conoscenti per i consigli.
Li ho ascoltati, davvero. Anche se molti di voi potrebbero dubitarne, nel leggere le prossime righe.

Parlo un po' di questa storia con Eco.
Per quanto lo conosca ancora poco (sicuramente meno di Regina, con cui vado a spasso da fin dopo l'iniziazione, più o meno), mi viene più spontaneo discuterne con lui. Eco ha sempre l'aria di avere la situazione sotto controllo, che tutto sia grossomodo gestibile.
E, signore e signori, non credo occorra un corso di psicologia per capire che ho una paura fottuta, dopo quello che è successo.
Io ed Eco decidiamo di sceglierci un altro posto, invece del bar che bazzichiamo a Bologna. Senza bisogno di specificare troppo, un posto tranquillo e non troppo in vista.

Gli spiego la situazione, con la sicurezza che mi spezzi l'osso del collo solo a conoscere l'esistenza di questo blog. Glielo dico di fretta, un tentativo squallido di fast talking che suona più o meno come: "equindinelblogincuiraccontoquestastoria..." e vira immediatamente sullo scorso post e sui gentili ospiti che me l'hanno lasciato.
Eco rimane impassibile. Credo siano quei suoi occhialini a renderlo così. Non lasciano intravedere niente, dello sguardo.
"Cosa pensi di fare?", chiede.
Alzo le spalle. Non lo so, mi verrebbe da dirgli. "Non lo so".
Annuisce, come fosse una risposta che si aspettava. Guarda davanti a sé e, qui dove siamo noi, il cielo notturno è una ragnatela di fulmini. Non piove, però.
"Avete incontrato un Agente della Coerenza. Pensi che potrebbero essere loro?", mormora alla fine.
"Boh, per quello che ne so, sì. Anche. Che ne so. Quello che ho visto io, era meno umano di una webcam. Ci fissava di continuo, ogni tanto sembrava perderci e poi ci fissava ancora"
"E' perché non vi vedeva. Buona parte degli Agenti è cieca. Captano solo le interferenze nell'immaginario e chi le produce. Quando non vedono o sentono nulla, significa che va tutto bene"
"Allora quelli che hanno crackato il blog non possono essere Agenti della Coerenza, giusto?"
Passo sopra anche l'ultima, mostruosa affermazione di Eco, pur di ritagliarmi questo brandello di tranquillità.
Lui mi fa un sorrisetto saputo, tanto per sottolinearmi che non è mai così facile. "Prima cosa: non tutti quelli che lavorano per la Coerenza, sono Agenti. Alcuni lo fanno in maniera inconsapevole. Altri sono comunissimi esseri umani. Altri ancora una volta erano dalla nostra parte, per poi cambiare idea"
"Traditori?"
"Loro ti direbbero semplicemente che vedono le cose da un'ottica più matura. Ce ne sono sempre di più, via via che passa il tempo. Ma prima sfatiamo il mito numero due"
"Sarebbe?"
"Non siamo due eserciti, tutti compatti da una parte e dall'altra del fronte. Per quanto ne so, questi che ti hanno scritto potrebbero condividere ogni minima nostra idea ed essere matti come cavalli. Magari vogliono ammazzarti per dimostrare una qualche loro teoria. Magari farti il lavaggio del cervello, magari offrirti un the. Non sapere un granché gli uni degli altri è sempre stata la nostra più grande debolezza"

Rimaniamo un po' in silenzio. Altri fulmini all'orizzonte, altra promessa di pioggia.

"Credi possano sapere dove sono o chi sono?"
Lui aggrotta la fronte, in un'espressione che suona quasi divertita. "Non è che tenere un basso profilo sia la tua specialità, Hanuman. Io ti ho detto un mucchio di volte che buona parte delle cose che fai è pericoloso. Ma prendersi un nome da scimmia implica anche ragionare come una scimmia, immagino..."
"Ah, e basta rompere le palle con questa storia del nome!"
"Perchè hai scelto proprio quello?"
"Era un mio personaggio di un gioco di ruolo. E di qualche racconto. Un mago terrorista, di religione hindu. Ok... lo so che è qualcosa di stupido"
Eco però non mi guarda come fosse qualcosa di stupido. Mi guarda con l'aria di chi abbia le idee un po' più chiare riguardo a un paio di domande che, ovviamente, si tiene per sé.
Ci rimugina un altro po'. Quando riprende a parlare, l'argomento nome in codice Hanuman è acqua passata. "Regina ti direbbe di tenerti alla larga da loro. Farti proteggere, finché non ti lasceranno perdere"
"E tu, che dici?"
Scuote la testa. "Chissenefrega, di quel che dico. Tu cosa vuoi fare?"

Si alza un po' di vento. Anche una puzza stomachevole, che attraversa i campi intorno a noi. Concime, probabilmente... cagato però da una divinità da incubo primordiale, per l'odore che fa.
"Io ho una gran paura, Eco. Però sono maledettamente curioso"
"E quindi?"
"E quindi andare mi sembra davvero assurdo, ma una parte di me ne avrebbe voglia. Vedere l'altro punto di vista"
"Allora fallo"
La frase rimane un po' sospesa in aria, prima che mi renda conto di cosa voglia dire. "... eh?"
Eco si stringe nelle spalle. "Sembra vogliano dirti qualcosa, no? Se non parli con loro, non saprai mai cos'é. Un altro punto di vista? lo accetterei anche se me lo stesse offrendo il mio peggior nemico"
"Va bene... ma potrebbe essere una trappola. Non dovrebbe essere questo, il punto del dialogo in cui mi dici una cosa simile?"
Eco annuisce, accendendosi una sigaretta. "La conoscenza è sempre legata ai rischi". Il tono con cui lo dice ha un timbro indifferente, come se stesse esponendo la più grossa ovvietà del mondo.

Poi alza di nuovo le spalle. "Sono capaci tutti di non fidarsi di nessuno"


E quindi arriviamo a noi.
Tutto questo resoconto per dire una sola cosa.
Va bene. Incontriamoci e fatemi vedere, Società dei Poeti Estinti.
Per quanta paura abbia, voglio vedere.
Voglio davvero vedere.

sabato 9 agosto 2008

questo non è un capitolo.
è un avvertimento. per te e per tutti quelli che stanno leggendo
quella che credono una storia inventata.
non ci conosci, hanuman.
noi sì.
noi ti osserviamo da un pezzo.
indovinare la tua password, il tuo id, è stato semplice.
leggerti è semplice.
guardiamo cosa fai, come ti muovi, il nome che hai scelto.
ciò che stai diventando e che diventerai.
non siamo così diversi, noi e te.
oggi il mondo cambierà.
quanto sta succedendo al cern è solo l'apertura di una lunga partita.
voi giocate a scacchi immaginandovi racconti dietro le vostre mosse.
noi immaginiamo nuovi pezzi sulla scacchiera.
l'LHC è solo il primo passo.
noi ti osserviamo, hanuman.
non credere a quello che ti dicono.
ti stanno mentendo.
non fidarti di regina.
in un altro racconto, un te stesso più ingenuo ne ha pagato le conseguenze.
ecco cosa ti offriamo noi:
un altro punto di vista.
continueremo a osservarti.
e quando vorrai sapere,
ti tenderemo la mano.
La Società dei Poeti Estinti.

lunedì 4 agosto 2008

Capitolo dieci. Ravadalamacanaxa

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Comincia a seguirci non appena scendiamo dal treno.
Non me ne accorgo, sulle prime. E' Regina a farmelo notare, in mezzo a quattro chiacchiere sui nostri videogiochi preferiti di sempre (Planescape Torment per me e Deus Ex per lei).
Mi dice: "Cammina come se andasse tutto bene", così, in mezzo al discorso.


E prima di capire cos'è che non dovrebbe andare bene, sento i passi dietro di me.
Non è tanto sentire dei passi, capite: in stazione a Rimini, in piena estate, è tutto fuorché un evento eccezionale. E' il distinguerli nettamente dagli altri.
Rigidi, secchi, cadenzati. Sembra la camminata di qualcuno abituato da anni a marciare al passo dell'oca e che si sforzi di nasconderlo. Senza riuscirci. Perchè il passo dell'oca ormai gli scorre dal cuore alle gambe, fino al cervello, senza ritegno.

"Ok...", comincio.
"No. Non c'è nulla che sia ok", mormora veloce lei, sputando le parole così rapidamente che faccio fatica a sentirle.
"Ma è per quella roba che ho fatto in treno?"
Sto parlando con la voce abbassata. Odio parlare con la voce abbassata senza rendermene conto. Di solito vuol dire che non c'è una ragione per cui lo stia facendo. Solo perché si fa così.
Regina scuote la testa. "Non so, può essere. Per me ci seguono da prima. Te l'ho detto che, da quando t'abbiamo iniziato, si sarebbero accorti di te".


Camminiamo veloci dalla stazione, dritto per dritto, senza fermarsi. Attraversiamo una strada col rosso. Una macchina ci strombazza dietro e io per un attimo ho l'impressione che ci metterà sotto, proprio come quella volta in cui ho rischiato di essere investito da ragazzino, con la cassetta di In Utero in tasca e


Regina mi afferra una mano. Inizia a camminare più velocemente.
Anche i passi dietro. Chiunque ci stia inseguendo, me lo immagino che si fa largo tra le persone, spintonando, standoci sempre dietro. Non troppo attaccato a noi, finché c'è gente. Abbastanza per fare la sua mossa quando ci ritroveremo da soli.

Qualcosa dentro di me, ne è sicuro.
Fanno sempre la loro mossa quando stai da solo. Non so perché ma so che è così.


Accanto a noi, le case sanno di fatiscente. Mentre Regina mi strattona lungo la strada, le vedo trasformarsi: da magazzini ferroviari, cimiteri di macchine e di ferro, diventano brutte case. Poi le brutte case diventano vecchie villette. Le vecchie villette diventano il centro della città, un centro che sembra un lungo corridoio d'asfalto, incredibilmente spoglio e desolante a quest'ora in cui tutti sono al mare.

Non mi accorgo di quanto fiatone ho, finché non ci fermiamo per improvvisare una strada in cui andare. Destra o sinistra, testa o croce. Ansimo come uno di quei vecchi cani con la lingua a penzoloni. Ho gli occhi sbarrati e voglio solo correre ancora.
Perché cazzo sono così spaventato?

Faccio per...
"Non voltarti indietro - dice Regina - Non lo guardare. Non dargli la sola idea che sappiamo cosa sia"
"Io NON SO cosa sia, Regina"
"Seguimi, presto!"


Mi afferra di nuovo la mano e mi trascina a destra.

Faccio il bravo, non mi volto. Ti riesce sempre molto semplice fare il bravo quando hai una paura fottuta.
"Non immaginarlo. Immaginarlo potrebbe dargli potere", sibila lei.
"Eccheccazzo, e poi?"

Qualcuno ci guarda. Un paio di vecchi che sembrano saperla lunga sul nostro conto, e ridono e parlano in dialetto. Una ragazzina con una ciocca di capelli colorati di blu elettrico e una maglietta dei Death in Vegas. Un padre che spinge una carrozzina.
Perché ci stanno guardando? Cosa succede?

I passi dietro di noi, che continuano sempre alla stessa cadenza, sempre alla stessa distanza, nè più affrettati nè più stanchi.


"Presto!", fa Regina, con la voce che si impenna in alto e gli occhi sbarrati. Stringe più forte la mia mano. Inizia di nuovo a correre. Inizio a correre anche io, senza un come o un perché. Corriamo come se ne andasse delle nostre vite.

Chiudo gli occhi.

Non me ne frega un cazzo di dove stiamo andando, mi frega solo di sapere che ce ne stiamo andando da qualche parte. Regina mi strattona da qualche parte. Verso sinistra, dentro un vicolo. Io penso soltanto

In un vicolo, come nei peggiori inseguimenti da film
e poi
ci prenderanno, ci prenderanno siamo spacciati, non possiamo farcela
e anche
è sempre quando sei da solo, che fanno la loro mossa.

Lei è terrorizzata, io anche.
"Non abbiamo molto tempo"
"Da che cazzo stiamo scappando?"


Dentro al vicolo. Sedie vuote di un baretto che è in chiusura estiva, o più probabilmente in chiusura di turno. Una libreria proprio davanti a noi.
Regina mi fa cenno di aspettare, vicino alla vetrina della libreria, e si sporge dall'imboccatura del vicolo per controllare.

"E' ancora lontano", dice. Io mi chiedo come faccia a essere lontano, visto che l'ho sempre sentito attaccato a me, ogni momento, sempre i suoi passi dietro. Me lo chiedo in silenzio, perché sapere che non è proprio alle nostre costole mi risulta parecchio rassicurante.
E chi sono io per mettere in dubbio quel po' di sicurezza con qualche domanda?

Cristo che razza di schemi di pensiero di merda, mi mette in circolo 'sta cosa.


"E' un agente della Coerenza"
"Coerenza?"
Lei continua a buttare un occhio all'entrata del vicolo. "Ti ricordi in treno, che mi chiedevi come mai la Realtà non cambia di continuo, visto che basta una storia convincente per farlo? E' a causa loro, di quelli della Coerenza"
"Ma cosa cazzo sarebbero?"
"Non lo so. Non lo sa nessuno di noi. Sappiamo solo che esistono. Hanno scritto questo mondo e le sue regole. E ogni volta che qualcuno o qualcosa fa per cambiarle, provvedono a individuare l'errore narrativo e a eliminarlo. Proprio come faresti tu, quando cavi un'incongruenza in un racconto"

Recuperiamo fiato. Mi sento quasi febbricitante.
"Quindi loro sono... uh... nostri nemici?"
Regina annuisce. "Più o meno, anche se non è una questione di nemici o amici. Loro non ci considerano nemmeno esistenti, finché non facciamo qualcosa che sconvolge le regole. Te l'ho detto, sono il cancellino di Word che cava via i pezzi sbagliati di una storia"
"E quindi?"
"Dobbiamo comportarci in maniera coerente", dice lei, sciogliendosi i capelli e facendo un sorriso falso da un angolo all'altro.

"EH?"

"Se ci comportiamo seguendo i loro schemi mentali, non riusciranno a distinguere la nostra presenza in mezzo agli altri, e potremo seminarli indisturbati fino a tornare in stazione"
"Sì, ma come..."
"Ascolta. Io sono nera e tu, ogni frase che dirai, dovrai rimarcare che lo sai e non ti importa. Perché tu sei mio amico malgrado io sia nera, ok?"
"Ma che stronzata é, questa? E' ovvio che..."
"Non importa cosa consideriamo ovvio! Non capisci che il punto è questo? Tu invece, fatti dare un'occhiata... ok, sei gracilino, non fai sport... scrivi poesie?"

"Uh... qualche volta"

"Ottimo. Sei il mio amico poeta che parla solo di poesie. Sei innamorato di me, malgrado il fatto che sono nera, ma io non ti ricambio. Perché io voglio un uomo aitante e sicuro di sé, con pochi grilli per la testa. Tu parlerai solo di poesie"
"Stai scherzando, vero?"
"No, e se qualcos'altro ti suona più squallido o ridicolo di questo, usalo. Ne va delle nostre vite, Hanuman"


Usciamo.

Quasi gli sbattiamo addosso e io mi chiedo come faccia la gente a non accorgersi di lui, a non guardarlo almeno un po' strano. Un uomo vestito come il più archetipico dei Men in Black, di pomeriggio, in una delle estati più calde che ricordi.
Giacca lunga, chiusa. Bottoni fino al collo. Guanti. L'unica cosa che lascia scoperta è il volto. Proprio per questo sono sicuro che non sia vero.
Si ferma, ci fissa. Si aggiusta gli occhiali neri.

Ma quanto è pallido? sembra che il suo corpo sia fatto di carta, per come è bianco. Un bianco di quelli solidi, gessati, che nemmeno ti fanno intravedere le vene.

Regina mi dà una gomitata, mentre ci apprestiamo a camminargli accanto. Aumenta un po' il passo, calca il marciapiede appoggiando il piede come una modella.
L'uomo in nero ci fissa.
Cominciamo lo show.


"Non pensavo di poter parlare di queste cose con te". Oddio, comincio appena e mi sembra di essere davvero un mentecatto.
"Davvero?", trilla lei.
"Sì... anche se sei una donna, con te si può chiacchierare di un mucchio di cose!"
"Anche con te - risponde lei, e la sua bocca si allarga in un sorriso triste - Non capita sempre che qualcuno non si ponga problemi perché... perché..."

Lascia la frase in sospeso, come un assist.

"Perchè sei DI COLORE?", cerco di calcare molto sull'espressione. E non posso fare a meno di guardarlo, l'agente che ci sta fissando. Mi chiedo se ne se accorga. Che lo fisso, cioé. Cerco di far sì che il mio sguardo non si trattenga troppo su di lui, ma è quasi impossibile. C'è una sorta di fascino in quella pura artificialità, in quei lineamenti proporzionati e finti, in quella pelle perfetta. In tutta la sua sintetica presenza.
Ora sembra una telecamera impazzita. Sposta lo sguardo su di me e su Regina. Prima su di me e poi su di lei, poi di nuovo su di me. La gente non ci fa nemmeno caso. Il sospetto che nemmeno lo vedano, adesso, è molto più forte di prima.

"Sì... - mi risponde intanto Regina - Di solito, alla gente non va troppo di parlare con me. Ma tu sei diverso. Si vede che sei così sensibile"
Non ce la faccio più.
"E' perché sono gay, siamo sempre molto sensibili", ghigno.


L'uomo in nero pianta lo sguardo su di me.

"Niente battute, deficiente!", sibila Regina, affrettando il passo. L'uomo in nero viene con noi, ci cammina a fianco, continuando a fissarmi.
Provo a correggere. Se ho capito come funzionano questi cosi, dev'essere l'ironia che ha attivato il suo campanello d'allarme, non la frase in sé.
"Ho scoperto di essere gay da quando scrivo poesie", azzardo, più seriamente.
L'uomo in nero scuote la testa in uno scatto a orologeria, verso Regina.
"Dev'essere dura, per te. Essendo nera, capisco bene cosa significhi essere discriminati"

Non siamo molto lontani dalla stazione. L'uomo in nero continua a muoversi sempre di più come una vecchia sveglia, come un rudere tecnologico. Adesso non siamo più gli unici che sta fissando. Si guarda intorno e ho l'impressione che stia perdendo il segnale.

Decido che è il caso di rincarare la dose.


"Eppure, guardandoti, ora mi viene da mettere in dubbio tutto quanto. Per quanto tu sia di colore, sento di provare qualcosa per te"
L'uomo in nero, di nuovo, si fissa su di me. Ho sbagliato qualcosa un'altra volta?
Sorride. Non credevo nemmeno che potessero farlo. Un sorriso asciutto, una linea dura che sembra una cicatrice.

"Oh... non potremmo essere solo amici?", risponde Regina, con un capolavoro di tormento sul viso.



Pochi minuti dopo, siamo sul treno del ritorno. L'ultima battuta di Regina ha annichilito completamente l'attenzione dell'agente verso di noi. Nonostante questo, non abbiamo spiccicato una parola per almeno mezz'ora, fingendo di guardare fuori dal finestrino. Fingendo, a tratti, di dormire.
Tempo dopo, Eco mi dirà che quello è il loro potere peggiore: quello di spaventarti, spaventarti tanto da non farti parlare più, da farti scegliere con attenzione le parole anche quando non ci sono.

Non va bene. Non mi piace affatto, quindi parlo.


"Chissà che fine fanno, quelli che vengono catturati da loro".
Regina sospira. "Non so... alcuni dicono che ci siano campi di concentramento segreti, in cui vengono rieducati. Altri pensano che vengano semplicemente cancellati"
"Cancellati?"
"Cancellati", dice lei. Inequivocabile.
Rimango zitto per qualche minuto. "Mi ha guardato, prima di perdere del tutto il segnale. Giurerei che abbia pure sorriso"
"Forse qualcosa che hai detto l'ha divertito. Ricordi a che punto della discussione l'ha fatto?"



"No", mento.

lunedì 28 luglio 2008

Capitolo nove. Qasataravanagaza

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Regina si toglie i sandali e appoggia i piedi nudi sul sedile davanti a sé.

"E' da quando ho finito l'università che non viaggiavo così tanto in treno", le dico. Non è che mi dispiaccia. Alla fine, per uno che le auto non sa nemmeno come farle partire e ha visto troppe puntate di Lost per sentirsi a suo agio durante un decollo, il vecchio cavallo di ferro è la soluzione più amichevole. E poi come fa a non sembrarti rassicurante un coso che fa ciuf-ciuf?


La mia compagna di viaggio non trasuda esattamente sicurezza, però. La vedo lanciare un'occhiata di sfuggita ai posti di fianco. Sembra preoccupata, per un momento. Poi, la sua espressione torna la stessa di sempre: curiosa ed entusiasta come una bambina dei fumetti.
"E' il posto migliore per raccogliere storie, il treno. Entra chiunque e dentro ti ci puoi spostare come vuoi"


Due mormoni vengono a sedere a un paio di poltroncine dietro di noi. Li riconosci subito: camicia bianca, bibbia nel taschino, pantaloni scuri, cravatta improbabile.
"C'è stato un periodo in cui sembravano esser dappertutto, sparsi come spore aliene per l'Emilia Romagna. Ti fermavano sempre in due e, ogni volta, almeno uno dei due si chiamava Fratello John"
Regina scuote la testa, sogghignando. "Fratello John... come mai si chiamavano tutti così, per te?"
"Bah, John è un nome diffuso in America. E loro non sono americani o qualcosa del genere?"
"Altrimenti?", mi chiede con lo stesso tono che ha usato prima del Rituale di Babele. Quella di quando scarta la soluzione più ovvia e razionale per sentirsene raccontare una completamente folle. La mia pretesa preferita.
"Altrimenti c'è un Fratello John originale, che usano come stampo. Lo tengono segregato nelle segrete di Mormoland e lo clonano a ripetizione"
Regina annuisce convinta, con il sogghigno che è diventato un sorriso deliziato. "Sì! Oppure... oppure aspetta, magari invece Fratello John è una carica onorifica segreta, tramandata di padre in figlio, o solo ai più degni..."
Ce la sghignazziamo sotto gli occhi un po' basiti dei Mormoni, che non hanno ben capito cosa stiamo dicendo, ma ci fissano con la consapevolezza istintiva che non ridiamo con loro, ma di loro.

"Il fatto è - riprende Regina, un po' più seria - che davvero potrebbe essere così. Ogni storia è vera, se la racconti in modo che abbastanza gente, insieme a te, creda che lo sia"
"Immagino che per vera tu non intenda un semplice più convincente, giusto?"
"No, intendo proprio vera. Se una buona fetta di persone nel mondo fosse intensamente convinta che Fratello John sia un clone, Fratello John sarebbe davvero un clone"
"Vuoi dire che lo diventerebbe?"
"No, che lo sarebbe sempre stato. La sua vita verrebbe riscritta da capo a piedi. Il nostro potere, il potere di cambiare il mondo con le storie, si basa tutto su questo"

Ci fermiamo. La voce degli altoparlanti trascica in perfetta inflessione romagnola il nome della stazione. Castel Bolognese, stazione di Caaaastel Bolognese. Qualcuno, sulla banchina, guarda il treno con aria spaesata. Un odore insostenibile di merda nell'aria.

"Sì, però non è così che vanno le cose. Fosse così, il mondo verrebbe... com'è che hai detto? riscritto in ogni momento"

Me ne pento cinque secondi dopo, di averglielo detto. Di nuovo, la vedo far scattare lo sguardo in ogni direzione possibile, schiacciandosi contro il sedile. Le gambe, tese sulla poltroncina davanti si irrigidiscono e si tendono, neanche fossero percorse da una scossa improvvisa.
Sembra spaventata, e più si sforza di non darlo a vedere, più riesce benissimo a farti cagare addosso. Nel clima di paranoia in cui sprofondiamo di colpo, sembra impossibile vederci ridere fino a pochi attimi fa. Adesso l'atmosfera è puro MIO DIO CI STANNO SEGUENDO... che è piacevole solo quando la vedi in un film o te la raccontano, davvero.

"Di questo ne parliamo un'altra volta", taglia corto Regina
"Senti, non possiamo parlarne adesso, invece?"
Scuote la testa. "No, non posso. Devi renderti conto che da quando sei... sei uno di noi, sei anche diventato un bersaglio visibile per alcune persone. E qui c'è troppa gente, per non essere sicura che qualcuno di loro non sia in incognito"


La troppa gente si riassume in noi due, i mormoni, un rom addormentato e un ragazzo che legge una puntata di Dampyr.
"Maddai"
Mi alzo, mi vado a mettere vicino ai mormoni. Regina mi guarda, senza la minima idea di cosa sto facendo. Nemmeno io lo so. Di colpo mi sento euforico e fuori come un culo. Sento qualcosa dentro di me che vuole solamente divertirsi, ridere a zanne snudate, e che mi suggerisce idee abbastanza strane per farlo. Sono dannatamente su di giri e so che c'é un modo, un ottimo modo, per vedere se Regina ha ragione sul potere delle storie.

"Ehilà, ma voi siete mormoni!"

Mi guardano come se fossi completamente ubriaco. Uno nemmeno mi risponde. L'altro mi studia attentamente e annuisce. Regina continua a fissarmi, piantando le unghie nel bracciolo della poltroncina e, tuttavia, restando lì seduta dov'é.

"Come vi chiamate?"
"Fratello Greg", bonfonchia quello dei due che non mi ha risposto prima.
"Fratello John", dice l'altro. Mi volto verso Regina con un ghigno grande come una casa e, per quanto la veda ancora tesa, anche lei sbotta in una risata involontaria.
Fratello John è basso e minuto, i capelli biondo cenere tagliati a spazzola e la cravatta azzurro chiaro. Qualcosa in lui mi ricorda un cosplayer riuscito male di Michael J. Fox, in uno di quei film sugli yuppie. Di Fratello Greg, lascio che l'immagine mi scivoli addosso senza prendermi la briga di ricordarla. A pelle mi sta abbastanza in culo.
E' comprensibile, la diffidenza non si allenta nemmeno di un po'. Abituati come sono a fermare per strada la gente e farsi dire non ho tempo in tutte le lingue del mondo, Klingon compresa, il fatto che arrivi qualcuno in vena di attaccare bottone non è molto credibile.
"Tu... ehm, come ti chiami?", chiede Fratello John. Fratello Greg è disgustato. Io, invece mi chiedo se questa storia di raccontare storie e farle avverare, funzioni anche se non è tutto il mondo a crederci, ma solo un paio di persone con grande intensità.
Sto per scoprirlo.

"Io ho molti nomi", dico con un tono drammatico.

"Eh?", fa Fratello John, sbattendo gli occhi. Anche Greg sembra destarsi dal suo stato di odio apatico nei miei confronti.
Mi lancio in un sorriso che dovrebbe suonare misterioso. Non so quanto sono convincente. Semplicemente non ci penso, lascio che mi riesca naturale sorridere in quel modo.
"Andiamo. Mi conosci bene. Qualche volta ti avranno parlato di me, altrimenti mi sentirei deluso. Il ribelle della famiglia..."
"Scusi, non capisco"
"Sai benissimo cosa sto dicendo, Johnny"

Sono lanciato di brutto. Ora, una piccola parte di me sa fin troppo bene che mi sto rendendo ridicolo. Un'altra, semplicemente, non pensa. Sa che alla fine non è così impossibile.

"Strano sì, ma non impossibile. Oh, certo... dubito anche io che a catechismo ti abbiano mai messo in guardia dalla possibilità di trovarmi su un treno per Ancona"
Greg sussurra a John qualcosa in inglese, ridendo e guardandomi come l'attrazione del pomeriggio. Anche John, per carità, ma c'è un riflesso differente nei suoi occhi. L'ombra di una possibilità, quella che sussurra un perché no flebile finché vuoi, ma esistente.
Mi ci aggrappo con tutte le mie forze.

"Noi ci conosciamo già, Johnny. Sono lì con te quando senti un po' troppo silenzio alle tue preghiere. Quando lei ti ha lasciato e non riuscivi a trovarne una ragione. Quando tutto è andato secondo la volontà del Signore, e non l'hai trovato giusto. E se non senti puzza di zolfo o mi vedi con le zampe da capra, è solo perché..."

"Mi scusi, signore".
Alzo lo sguardo. Il controllore, sopra di me, toglie ogni credibilità alla scena.

Rovisto in una tasca e gli allungo il biglietto, cercando nel frattempo di scrollarmi una sensazione sgradevole di dosso, un cocktail di vergogna e qualcos'altro di più denso ma meno definibile. Fratello John si scuote. Evitiamo di fissarci, ci censuriamo a vicenda. Nessuno dei due dice nulla all'altro, e io me ne torno semplicemente al mio posto, davanti Regina.

"Sei un idiota", dice lei.
"Volevo vedere che succedeva, tutto qua"
"Cosa volevi che succedesse? Che alle tue storie ci creda una sola persona, non conta così tanto"
Mi sporgo verso di lei e il mio sorriso è lo stesso che il Diavolo ha rivolto a Fratello John. "Sei sicura che sia tutta una questione di numeri?"
Abbassa lo sguardo, ma non lo stacca mai del tutto dai miei occhi. Credo che, semplicemente, sia abituata a non distoglierlo mai. "Cos'hai sentito, mentre lo facevi?"
"Bah, niente di che"
"Niente niente?", fa lei, con una punta di delusione.

Non è vero. O forse lo é. Dipende da quanti significati sono disposto a dare alla parola suggestione: c'è stato un gran sollievo quando mi hanno interrotto, questo sì. Perché la sensazione che ho avuto, per niente bella, per un istante era quella di...

"... non riuscire a fermarmi. Che, anche se era un gioco, l'unica era andare fino in fondo, sempre fino in fondo".

domenica 20 luglio 2008

Capitolo otto. Maganataracapalaqasa

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"Che cadano le maschere", dice Eco prima di sbendarmi.

Le maschere cadono. Almeno la mia, una benda nera che mi toglie dalla faccia per poi restituirmela in mano. Senza pensarci la stringo forte.
Regina si allunga verso di me e mi bacia sulla guancia, dopo avermi tenuto abbracciato per qualche istante. Un po' come se stesse ammettendo in silenzio di aver scherzato, a proposito di tutte quelle minacce di morte in macchina.
Non era uno scherzo. Non so nemmeno se sia stata una prova, anche se ne sono abbastanza convinto. Quelle prove per testare la tua fiducia e il tuo coraggio, suppongo, e che ho passato nè in virtù dell'una nè dell'altro.
Se l'ho superata, è stato solo perchè ormai ero sicuro di non poter più tornare indietro.


L'unica luce è quella dei neon. Per quanto sia smorta e incolore, ho come l'impressione che sia la migliore possibile. Per un attimo, ho temuto di trovarmi in un posto pieno di candele.
Non so, ci fossero state le candele mi sarebbe venuto da ridere. I neon mi danno più l'impressione che tutto questo stia succedendo davvero.
Sono più realistici.


Mamma mia, che razza di coglione che sono.

E lo confermo pure, con la prima domanda che mi sboccia di bocca, non appena riesco a vedere qualcosa.
"Dove siamo?"
Regina fa un'espressione divertita. "Da qualche parte, oltre l'arcobaleno"


All'inizio, credo che mi abbiano portato in un vecchio garage sotterraneo che conosco, a Bologna.
Se è quello che dico io, dovremmo essere più o meno in centro, pochi passi dalla Montagnola e vicino a una piazza dove c'è una grossa centralina, che sembra il Monolite di 2001.
Potrei sbagliarmi, però. Potremmo essere sotto un qualunque centro commerciale un po' fuori città. Questi posti sono tutti uguali.
Non siamo soli, da questa parte dell'arcobaleno. Il garage è pieno di gente. Gente seduta per terra, gente appoggiata alle pareti o che aspetta in macchina. Tutti a guardarci e a farci sentire appena a mollo nella vasca dei pescicani.
Non è tanto il numero che mi lascia a fissarli inebetito. Me lo aspettavo che fossero in tanti, che non si sarebbe risolta in una gita di piacere tra me, Eco e Regina. E' vedere chi sono che mi fa rimanere lì, a piantare su ciascuno lo sguardo almeno due volte, per assicurarmi di non essermi sbagliato.

Dritto, a braccia incrociate, uno dei miei scrittori preferiti, pochi chili per troppi centimetri. Ci fissa come un inquisitore ansioso di processarci. Poco distante da lui, appoggiata al muro, una signora inglese sui quaranta mi punta sogghignante una bacchetta contro. Sussurra qualcosa che assomiglia ad abracadabra, ma che non suona esattamente così.
Un vecchio cantante di queste parti, robusto e ruvido come un orso, accenna ad alzare un bicchiere di Lambrusco verso Regina, mimando un brindisi. Lei risponde con una risata e un cenno di saluto. Un fumettista che conosco ci fissa torvo, la maglietta di Capitan America sul petto e una katana nel fodero, mezza sguainata. Il mio insegnante al corso di scrittura, l'unico che vedo del collettivo in cui milita, mi guarda con un'aria che non riesco a decifrare: si aspettava che fossi qui o no?
Una ragazza coi dreadlock rosso artificiale confabula con uno scrittore dalle dita piene di anelli, un bastone da passeggio con la testa di serpente e barba e capelli lunghissimi. Guardano verso di me. Lei incazzata, lui divertito. Il giapponese che disegnava i miei robottoni preferiti da bambino, ci rivolge un inchino rispettoso. Il cantante tedesco in giacca, cravatta e piedi nudi ci scatta una foto e si fa una risata.


Ma quello non dovrebbe essere morto? Quello là, con l'aureola di luce rosa?
E lui, lì accanto, non dovrebbe...? Quei due vicini, non dovrebbero essere miei amici?

No, non siamo a Bologna. E nemmeno nel Kansas.


Regina si schiarisce la voce e il brusio si trascina solo per qualche istante ancora, prima di spegnersi del tutto. Prende qualcosa, dai tasconi dei pantaloni dal taglio militare che indossa.
E' l'edizione economica della Storia Infinita di Michael Ende. La copertina è in cartoncino leggero, piena di rughe come se fosse stata sfogliata, spiegazzata, stretta decine e decine di volte.
"Metti la mano sinistra sul libro", mi dice, porgendomelo.
Eco è alla mia destra, una specie di padrino, e non fa nulla, davvero nulla per alleviare la tensione di questa specie di iniziazione a una società di... di cosa, precisamente? Ne vedo di tutti i tipi, tra sceneggiatori, scrittori, cantautori, registi, ballerini, comici, disegnatori e tantissima altra gente che non conosco.
Regina recita a modo suo, come un giuramento, il momento in cui viene consegnato AURYN ad Atreiu. Mi guarda fisso negli occhi.
"Ti diamo grande potere, ma non dovrai usarlo. Ti insegneremo a proteggerti e ti guideremo, ma non dovrai mai attaccare, qualunque cosa tu debba vedere, perché da adesso la tua opinione non conta più. Devi lasciare che tutto accada come deve accadere - fa una piccola pausa, ispirando col naso - Ora, dimmi..."

Di nuovo la sua espressione si arriccia in un sorriso.

"... sei pronto a trasgredire a tutte queste regole?"
Annuisco. "Sono pronto"
"E qual'è il tuo nome?"
Deglutisco, quando mi sento lo sguardo di Eco addosso.
"Hanuman è il mio nome"

Regina annuisce.
La ragazza coi dreadlocks fa uno sbuffo. Il giapponese alza un sopracciglio, vagamente stupito. Eco, dietro gli occhiali neri, sono sicuro che stia socchiudendo gli occhi. Come fa tutte le volte che è molto nervoso.

"Scimmia di merda...", dice qualcuno in mezzo alla folla.

lunedì 14 luglio 2008

Capitolo sette. Saranapaladacama

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Alle 21 mi vengono a prendere.
Alle 21 e 5 sono su una Toyota nera, con una benda sugli occhi.
"E' un cliché, quello dell'iniziando bendato che viene portato chissà dove - dice Eco, davanti a me, al volante - I cliché sono i nostri rituali. La nostra messa, più o meno".

"E poi chissà. Potremmo ucciderti adesso, sai?" mi soffia Regina accanto. Non mi ero accorto di averla vicino, nel sedile posteriore. La voce le si è fatta morbida di un desiderio inespresso. "Potremmo ucciderti, nascondere il cadavere da qualche parte"
Mi sento come se sfregassero un fiammifero, da qualche parte dentro di me. Non so se ho paura o se sono molto eccitato.
"Prima o poi vi verrebbero a cercare. Sapete come finiscono queste cose"
La voce di Regina si fa le unghie sulla mia paura. "Sì. Tu però saresti morto lo stesso, sia che ci vengano a cercare o no"
Eco mi interrompe, poco prima che apra la bocca per replicare. "Perchè forse siamo diversi da come ci immagini - dice - Forse siamo come quei matti omicidi che non si pongono problemi sulle conseguenze. Magari andiamo avanti, finché possiamo e finché non ci scoprono"

Anche se non posso vederli, riesco a percepire un'attesa alitata, sospesa attorno a noi. I loro sorrisi, nel buio della benda, si allargano in mezzelune taglienti quanto il ghigno del Gatto del Cheshire. Tutto il mondo si fa storto e privo di baricentro, azzoppato. Credo abbia anche finito di girare ma, finchè ho questa benda addosso, non posso esserne certo.
Regina preme una mano sul mio ventre. Le sue unghie sono decisamente più lunghe di come le portava, quando ci siamo conosciuti.
Soffia un respiro proprio vicino al mio orecchio.

Ma quando ci siamo conosciuti? Più ho l'impressione che mi si stiri a fianco, più mi sento stupido e in compagnia di estranei. Perfetti estranei.

"Magari è come dite. Magari anche far paura fa parte del cliché. Magari è..."
"Magari, magari...", risponde Regina. Per me, sta sorridendo.

Passa un tempo che potrebbe essere mezzora come un'ora, come dieci minuti. Minuti di silenzio assoluto, in cui le facce dei miei compagni rapitori sono i loro respiri. Lento e tranquillo, lieve, quello di Regina. Un po' più marcato e pesante, un po' più nervoso, quello di Eco.
E il mio? Se qualcuno potesse sentirlo, sarebbe un respirare diffidente, tenuto sommesso a forza.

"Ti piacciono i fumetti di supereroi?", mi chiede Regina.
Non so con che tono dovrei rispondere, vista la situazione. Dico un raggrinzito.
"Sei più per i buoni o per i cattivi?"
"I buoni, direi. Almeno cercano di migliorare le cose"
Regina sbuffa una risata.
"I buoni non migliorano niente. Hai mai visto Capitan America che migliora qualcosa? o Superman? o l'Uomo Ragno? Voglio dire... nemmeno gli X-Men, che dovrebbero essere quelli più arrabbiati socialmente, fanno nulla per cambiare il mondo"
"... beh, perchè..."
"Perchè sono i cattivi, che vogliono cambiare la società. Alcuni lo fanno per i loro interessi, altri contrario sono degli idealisti. Ma se c'è una cosa che accomuna il Dottor Doom e il Joker, è proprio questa. Non si fermano davanti a niente, nessun compromesso, nessun vorrei ma non posso. I buoni, invece, fondano tutto sempre e solo su quello. Dovere comune contro impulsi personali"

Eco si fa una grassa risata.
"E quindi, Hanuman, benvenuto tra i cattivi".
Poi, la macchina si ferma.