giovedì 19 giugno 2008

Capitolo uno. Damanarabaga

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D'estate succedono cose.
In Giappone, l'estate è la stagione dei fantasmi. A Bali festeggiano il Galungan e il ritorno degli dei sulla terra.
A pensarci non è così strano. Basta essere costretti ad aprire le finestre, di notte, per cambiare prospettiva. Improvvisamente ti accorgi di tutti quei rumori che prima si schiacciavano contro i doppi vetri delle finestre. Senti l'oscurità che crepita di grilli, il ronzio degli insetti, le voci smorzate dei tuoi vicini e quelle spettrali e azzurrine delle televisioni dalla veranda vicina. A volte stai stravaccato in balcone, con quel buio come interlocutore, quello che hai tenuto fuori casa per più di sei, sette mesi e che adesso ha un mucchio di roba da dirti.
Che tanto, non è che il buio si offenda facilmente.
Oppure cammini per le strade svuotate, dissanguate dall'esodo dei vacanzieri. Cammini su e giù dal marciapiede, che per una volta non fa tanta differenza.

Capisci perché i giapponesi sono un popolo così avanti, oltre che per averci dato Goldrake e Mazinga. Hanno intuito che la magia è più realizzabile in un momento in cui puoi camminare senza stare sul marciapiede.

L'estate dei miei nove anni la passai con i miei genitori in montagna. Giocavo sempre con questa bambina di un paio d'anni meno di me, la figlia della proprietaria dell'albergo. Lo stereotipo della bambina teutonica, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, le guance sempre rosse dal freddo. Giocavamo a costruire pupazzi imbrattati di sangue con vecchi sacchi del pattume e ketchup. Lei, che non ricordo più come si chiamasse, mi aveva convinto che ci sarevbbero serviti da feticci per proteggersi dai fantasmi. Me n'ero innamorato, non c'era pezza.
Quanto ai fantasmi, che ce ne fossero nell'albergo era un'inconfutabile dogma di cui tutti noi bambini eravamo convinti. Stavano nel seminterrato, usato come magazzino da un mucchio di anni. Ci si entrava da un ingresso in cortile, una scala che portava giù.

Nei miei ricordi, è la scala più lunga del mondo. Non riesci mai a vedere gli ultimi gradini perché sono sempre seppelliti nel nero più nero.

L'atmosfera da It intossicò la popolazione under 13 dell'albergo. C'eravamo noi bambini più piccoli che ci terrorizzavamo a vicenda. Giravamo nei pressi della scala senza osare scendere mai, escogitando piani di battaglia per scacciare i fantasmi, maturati grazie alle nostre acerbe ma intense frequentazioni di film horror.
Finché uno dei bambini non ci smontò completamente.
Venne a dirci che stavamo cannando di brutto. Che nel seminterrato non c'erano davvero i fantasmi.
C'era IL DIAVOLO. Ok, anche a dieci anni c'eravamo accorti abbastanza in fretta che il soggetto in questione era uno sparapalle professionista. Ma, dalla sua, un pomeriggio ci aveva fatto vedere il cadavere di un topo in cortile. Era stato ucciso evidentemente DAL DIAVOLO. E il DIAVOLO, proprio pochi minuti dopo, aveva deciso di far piovere.

In quel periodo, Winona Ryder de Il Crogiolo poteva pupparcelo a tutti, quanto a paranoia mistica. Però quando stavamo a sentire per bene nel silenzio più assoluto, i passi li sentivamo, da quella fottuta scala.

I più grandi se la ghignavamo di brutto alle nostre spalle, approfittandosene per aumentare a dismisura il nostro già critico livello di strizza. E, un giorno, pisciarono decisamente fuori dal vaso.
Colpa nostra: gli avevamo talmente rotto le palle con questa storia del diavolo, chiedendo di proteggerci, di scendere nel seminterrato e almeno vedere cosa stava succedendo. Ridursi a implorare i ragazzi più grandi, che a quell'età sono quanto più si avvicina a un nemico naturale, vi fa capie a che livello eravamo arrivati. A pensarci adesso, non erano nemmeno cattivi ragazzi. Ci spaventarono giusto un paio di volte, passando le altre a cercare inutilmente di convincerci che stavamo immaginando ogni cosa.
Altri al loro posto ci avrebbero picchiato. Di gusto.

Così, un bel giorno, il gruppetto dei grandi ci raggiunge a questa scala. E' gente tutta sogghigni con i capelli massacrati di gel e la faccia piena di brufoli. Si salutano dicendosi amigo tra loro, come certi paninari nei fumetti delle pubblicità su Topolino. E hanno dei sassi in mano.
"Avete paura dei mostri, eh?"
Uno di loro, nemmeno troppo grosso, stringe la sua pietra in mano.
"C'avete paura del mostro di Firenze? Che c'è, il mostro di Firenze là dentro?". E ride. Da lì noi intuiamo come non abbia capito un cazzo.

Perchè lì non c'è il mostro di Firenze (che poi avevamo sentito nominare giusto a un qualche tg di striscio). C'è il DIAVOLO.

Gli pigoliamo qualcosa che dovrebbe essere un avvertimento.
Niente.
Prende la mira con la pietra.
"Fatti questo, mostro di Firenze!"
La lancia con violenza, giù nel buio della scala.

Il diavolo caccia un urlo.

Sentimmo l'urlo venir su dal seminterrato.
Ancora adesso, l'ho perfettamente in mente e faccio comunque fatica a descriverlo. Era qualcosa che aveva a spartire con un ruggito felino, da pantera, e che terminava in alto nel grido furibondo di un uomo.
Non cominciammo a correre. Ci trovammo che correvamo già, con la bocca spalancata in un urlo silenzioso, senza fiato. Che tutto il fiato se l'era asciugato la paura. E intanto pensavamo che era impossibile che gli adulti non l'avessero sentito, non era possibile che fossimo stati solo noi, non era possibile.
E invece no. Quando ci rintanammo nell'albergo, la padrona ci chiese cosa fosse successo. Io guardai la mia socia, lei guardò me. Non ci avrebbero mai creduto. Mai. Però noi l'avevamo sentito. Ci bastò evitare di fissarci oltre, per capirlo.

La vacanza non durò molto. Entro pochi giorni tornammo alle nostre case e, in effetti, non è che avevamo molto da fare. Non giocavamo nè scherzavamo più sul discorso fantasmi. O sul diavolo. Forse, in maniera istintiva, sentivamo d'esser stati noi a creare la qualunque cosa ci fosse là sotto. E che l'unico modo di placarlo era non dargli ulteriore forza.
Non parlammo neanche più di quanto era accaduto. A volte mi veniva da gridarglielo in faccia. Ve lo ricordate? Come fate a non ricordarvelo ogni cinque minuti?
Non era cercare di far finta che non fosse successo nulla, intendiamoci. Sapevamo che era successo, eccome. Ma... ecco, era anche passato. Non era il caso di rivangarlo come nemmeno di darsene troppa pena.
Era un modo di pensare che potevamo permetterci solo perchè eravamo bambini. E i bambini partoriscono e ammazzano babau ogni cinque minuti.

In ogni caso, quello fu il mio primo contatto con tutto ciò che i Narratori Criminali mi avrebbero insegnato poi.
Magia.

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